Si fa presto a dire Made in Italy…
Cosa rende il Made in Italy quello che è? Ecco quali fattori hanno portato la produzione del Belpaese a essere sinonimo di qualità, raffinatezza e misura
È da quando sono rimasta colpita da una meravigliosa generalizzazione (ogni tanto fa bene “fare di tutta un’erba un fascio”) dello storico Carlo Maria Cipolla che ho il pallino del Made in Italy. Con una precisazione: non tanto e non sol(tanto) legato al concetto di fatto, cioè prodotto, in Italia, come effettivamente nasce l’espressione. Secondo l’Enciclopedia Treccani, infatti, è così che dagli anni Ottanta si comincia ad indicare la specializzazione internazionale del sistema produttivo italiano nei settori manifatturieri “tradizionali”. Rientrano in questa definizione le cosiddette “4 A”: abbigliamento (e beni per la persona), arredamento (e articoli per la casa), automotive (inclusa la meccanica) e agroalimentare.
È nella contaminazione virtuosa che si gioca e si giocherà l’ardua partita del mantenimento della nostra autenticità
L’espansione del concetto di Made in Italy
Possiamo con ragionevolezza affermare che al concetto di produzione se ne sono aggiunti altri che, gradualmente, hanno riempito il vuoto iniziale rispetto al legame intimo e stretto tra la produzione e la georeferenziazione. Quanto successo infatti delle 4 A dipende dal luogo in cui i settori si trovano? Molto, in taluni casi moltissimo. Il luogo, in Italia, è anche animus e genius loci. È natura e paesaggio; è artefatto e architettura; è uso e costume. È storia, tanto che le produzioni attuali hanno quasi sempre origini più lontane e affondano le loro radici nel passato, mantenendo intatte consuetudini e processi. È inoltre patrimonio immateriale che diventa stile di vita, con alcuni grandi denominatori comuni e una serie infinita di declinazioni locali dalla straordinaria tangibilità nel momento in cui muovono l’economia. Senza essere necessariamente lenti o a km0.
Da questo legame – tra il business e il territorio – la parte produttiva ha acquisito consapevolezza, con intensità diverse a seconda dei casi: nello Stivale si può passare da situazioni ideali di co-progettazione e autentica collaborazione con le istituzioni culturali locali a forme di bieco parassitismo prive di alcuna valorizzazione o relazione. Nel mezzo, una varietà di sfumature.
Il Made in Italy e il settore culturale
Per la parte culturale il rapporto è più controverso e la consapevolezza del legame non è tanto messa in discussione negli aspetti storici e storicizzati, quanto nella costruzione di politiche e strategie di sviluppo sostenibile. In altre parole, mentre il mondo produttivo e corporate continua lo “sfruttamento” (da leggersi anche in senso positivo) dei vantaggi competitivi del locus, il mondo degli operatori culturali continua ancora a lavorare a compartimenti stagni, mentre il modello dovrebbe essere quello archimedeo dei vasi comunicanti. I mondi che stanno fuori dai limes culturali sono visti e vissuti come partner occasionali nel migliore dei mondi possibili, quando considerati, e le comunità sono ritenute pubblici non prosumer (consumatori e produttori di contenuti al contempo). Solo spostandoci nel locus virtuale abbiamo acquisito consapevolezza di quanto valore abbia l’utente in termini di protagonismo e relazione.
Eppure la filiera delle merci estetiche ha regole ferree e non è un caso che un’automobile rossa piuttosto che un oggetto di design, un piatto di pasta o un cappotto, diventino esperienza personale come happening permanente poiché filtrati attraverso il proprio vissuto, e dunque capaci di generare conoscenza e percezione di qualità. Non basta più l’effetto “wow” (traslato oggi nella rete e nel mondo virtuale). La realtà ha bisogno di qualità e su questo parametro saremo sempre più misurati in futuro, senza poter dare nulla per scontato. Made in Italy non solo come fatto, realizzato, prodotto in Italia. Ma anche come pensato, progettato e ispirato in Italia. E poi ben raccontato, senza tralasciare la catena del valore, attivando quel protagonismo diffuso che una cena a Portofino restituisce con naturalezza al pescatore di gamberi, al coltivatore di chinotto, alla signora delle uova.
Il concetto di “incanto economy”
È nella contaminazione virtuosa – tra beni e attività, loci (animus e genius) e cultura d’impresa, tra paesaggio e utilizzo sensato delle risorse naturali, tra costumi e tradizioni e forme estetiche dei prodotti – che si gioca e si giocherà l’ardua partita del mantenimento della nostra autenticità.
Si tratta di un modello di sviluppo che ha radici antiche e che parte da un dato oggettivo: l’Italia è un paese che per circa il 70% del suo territorio, è costituito da piccoli e medi comuni con meno di seimila abitanti, con un sistema di micro imprese diffuse che sono ancora la spina dorsale delle varie filiere delle 4A. Il mondo della moda lo ha compreso da un pezzo e i fondi di investimento stanno acquisendo non soltanto i brand ma anche la catena dei terzisti che forniscono qualità e servizi unici, senza i quali sarebbe impossibile garantire quella che dal 2011 chiamo l’incanto economy, un’economia della bellezza per cui siamo il Belpaese.
A proposito, chiudo come ho cominciato, con lo storico Carlo Maria Cipolla e la sua definizione di Made in Italy: le cose belle che piacciono al mondo.
P. S. L’automobile rossa pensatela a piacimento (Ferrari, Fiat, Alfa Romeo…). La cena a Portofino è da chef Carlo Cracco.
Irene Sanesi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #75
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