Ecco perché anche l’Italia dovrebbe investire in videogiochi
Contro i pregiudizi verso questa industria di rado inclusa nel “settore culturale”, anche noi dovremmo investire nei videogames. Il perché ce lo spiega l’ambizioso piano messo in atto dell’Arabia Saudita
Quando si parla di cultura nel nostro Paese, è frequente che ci si riferisca a una dimensione del patrimonio culturale, storico e architettonico che abbiamo ereditato dal passato. Meno frequenti, ma pur sempre presenti, sono le sfere dell’editoria, del comparto audiovisivo o di quello editoriale. Di certo, quando si nomina la cultura, è raro che ci si riferisca ai videogames.
Si tratta, dopotutto, di una condizione naturale, principalmente ascrivibile alla nostra struttura demografica: anche un over 60 non propriamente definibile “gamer” può forse intuire il valore che c’è dietro l’industria del gaming, ma è difficile che possa comprenderne appieno la portata, sia sotto il profilo culturale (è necessario giocarci), sia sotto il profilo relazionale (è necessario parteciparvi con altri) sia, infine, sotto il profilo industriale.
A dispetto di questi pregiudizi, negli ultimi due anni l’Arabia Saudita ha avviato un’importante strategia di penetrazione e investimento all’interno del settore, che ha portato all’acquisizione, ad esempio, del 5% della Nintendo. E gli obiettivi di questa mossa sono molto ambiziosi e assennati.
Gli obiettivi dell’Arabia Saudita nell’investimento in videogames
Gli intenti dietro le acquisizioni strategiche nel colosso dei videogiochi puntano piuttosto in avanti. Attraverso la propria partecipazione nel settore, infatti, l’Arabia Saudita – entro l’inizio della prossima decade – intendegenerare fino all’1% dell’intero PIL nazionale, produrre almeno 30 nuovi titoli e creare circa 40.000 nuovi posti di lavoro.
Il tutto, attraverso una pianificazione di spese gestita da fondi di investimento del Governo, associata ad una strategia condotta dal Ministro della Comunicazione e delle ICT, volta a promuovere l’industria del gaming attraverso grandi eventi.
Il posizionamento strategico dell’Arabia Saudita
Si tratta di una mossa estremamente interessante: l’industria del gaming include posizioni lavorative ad alto capitale di conoscenza, con una diversificazione molto importante dei ruoli (dagli informatici puri ai grafici), che possono sviluppare le condizioni per migliorare il livello di produzione non solo nel settore specifico, ma anche nelle industrie correlate.
Il posizionamento strategico riguarda poi la produzione di contenuti culturali in un segmento in cui la domanda è in costante crescita, soprattutto in quei Paesi che vantano una maggiore presenza di giovani.
Si tratta, quindi, di un’operazione che permetterebbe all’Arabia Saudita di diversificare i propri investimenti (elemento essenziale), andando ad investire nel settore delle comunicazioni e dell’ICT, attraverso azioni di internazionalizzazione (l’acquisizione di quote di produttori e di distributori), con l’obiettivo di generare un’economia diretta nel medio periodo basata sul settore dei servizi ad elevato livello di specializzazione. E tutto questo producendo contenuti culturali che, con l’acquisizione dei distributori, potrebbero essere successivamente diffusi in tutto il mondo.
L’occasione mancata dell’Italia
Il nostro Paese avrebbe potuto avviare una simile strategia già più di dieci anni fa, tenendo conto delle competenze presenti allora in Italia, e della grande diffusione di piccoli e piccolissimi produttori indipendenti.
A dirla tutta, ci fu anche un momento in cui i videogames furono davvero presi sul serio: quando Assassin’s Creed portò ad un aumento dell’attenzione internazionale verso Firenze e gli Uffizi e nei confronti di altre città e comuni italiani, in cui i giocatori furono chiamati a muoversi per seguire la trama del gioco.
Quello che accadde, però, visto a dieci anni di distanza, fu rivelatore di una logica che, in fondo, non si è mai del tutto estinta: dopo aver capito che i videogames avrebbero potuto avere un impatto economico, l’Italia non cercò di definire un piano per posizionarsi in questo segmento; bensì sviluppò solo una strategia per fare ambientare quei videogiochi nel nostro Paese. Invece di comprendere la portata di questa produzione, che sarebbe stata tale da influenzare positivamente la curiosità di giocatori in tutto il mondo, l’Italia pensò che fare da location bastasse.
Stefano Monti
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