Non basta indignarsi. La pagliacciata dei Gladiatori di Airbnb al Colosseo deve farci riflettere
Ancora una volta i luoghi della cultura vengono commercializzati in modo becero: un problema profondamente italiano con cui dobbiamo fare i conti da molto tempo
Quer pasticciaccio brutto de Piazza der Colosseo, non piace a nessuno. E non piace soprattutto a chi si scontra con i talebani della conservazione per affermare un concetto di valorizzazione diverso dalla mera commercializzazione. Limitarsi tuttavia a condannare questa visione del Colosseo in salsa Las Vegas è riduttivo.
I nuovi gladiatori al Colosseo sono solo la punta dell’iceberg
Si tratta infatti di un evento che non ha affatto un carattere episodico, ma si inscrive all’interno di un percorso più ampio, e che dura ormai da almeno un decennio, e che è essenziale riprendere nella sua interezza, se si vuole davvero evitare che questa linea rappresenti il futuro di medio periodo della nostra politica culturale. Semplificare è necessario. Negli ultimi vent’anni, l’Italia ha un po’ alla volta iniziato a riconoscere alla cultura un ruolo economico di rilievo per il nostro Paese. Il discorso inizia, a grandi linee, con un libro verde, pubblicato dall’Unione Europea nel 2010, in cui si prendeva atto del potenziale economico delle economie creative e delle economie legate alla valorizzazione della cultura.
Con la cultura si mangia?
In Italia, si inizia ad affermare questa valenza economica in risposta all’affermazione “con la cultura non si mangia” che rimarrà a lungo attribuita a Tremonti (che nel frattempo ha smentito di averla mai pronunciata), ma che, a prescindere dalla paternità, sicuramente intercettava un pensiero che era diffuso e radicato. Iniziano così ad avvicendarsi spunti di riflessione, tentativi di valorizzazione dei musei, che nel frattempo avevano già avuto un iniziale impulso dettato dalla Legge Ronchey che potrebbe benissimo rappresentare l’inizio di questa vicenda. Inizia così una narrazione un po’ alla volta diversa, tutta tesa a dimostrare la valenza economica della cultura. In questo scenario, si affermano delle narrazioni a tratti semplicistiche: si inizia a dare sempre maggior valore al numero di visitatori dei musei, si iniziano a misurare in modo un po’ spannometrico e fin troppo estensivo i risultati economici dell’industria culturale e creativa, si celebrano le domeniche al museo, si cerca di dar impulso alla domanda di cultura attraverso benefici economici, si riscrivono le norme per le agevolazioni fiscali ad alcuni comparti culturali (tax credit cinema) o per la donazione al patrimonio pubblico (Art-bonus), e altre innumerevoli azioni che hanno avuto senza dubbio il pregio di portare la cultura all’interno degli strumenti economici del Paese, ma che hanno peccato forse di ingenuità. Perché tutti questi elementi, nei fatti, hanno condotto ad una valorizzazione monetaria della cultura, creando il clima culturale da cui nascono le priorità politiche di questo Governo, e che trovano, nel “Gladiatore per una notte”, una innegabile continuità d’azione.
La cultura in Italia è ancora una vacca da latte
In tutti questi anni, chi ha voluto affermare la valenza economica della cultura non ha fatto altro che esaltarne gli aspetti più prettamente monetari: era comodo a tutti introdurre all’interno del discorso quelli che una volta venivano chiamati effetti economici indotti. Così come era comodo limitarsi a contare i visitatori dei musei, sino ad arrivare ad elaborare statistiche che, ignare di qualsivoglia aspetto qualitativo, si limitassero al conteggio dei transiti, come se il Museo fosse una qualsiasi stazione di servizio, o negozio in centro. Sono state tentate anche altre dimensioni di approccio, va detto. C’è chi, soprattutto in una luce di rigenerazione urbana, cercava di mettere in relazione due dati altrettanto quantitativi (numero nuovi musei, valore al metro quadro degli appartamenti in vendita), per cercare di evidenziare aspetti qualitativi altrimenti difficilmente raccontabili (qualità della vita, del vicinato, dei servizi, ecc.). Abbiamo così costruito un Paese che crede che il patrimonio culturale valga tanti soldi, ma li valga in numero di caffè e cappuccini e camere d’albergo occupate.
In Italia la cultura si fa tra turismo e nostalgia
In un substrato culturale così diffuso, è evidente che se la cultura vale come asset funzionale al turismo, allora è chiaro che dobbiamo fare quello che si fa con gli asset turistici: si fanno eventi (le tante capitali), si fa pubblicità accattivante (ENIT), si fanno eventi che generino hype. Ed è normale che tutto ciò avvenga all’interno di un Governo che comunque conta su un elettorato incredibilmente affascinato dalle dimensioni dell’Antica Roma, così come raccontata nel Novecento. La narrazione condotta sino ad oggi, nella sua semplificazione che risultava efficace, perché “con la cultura si mangia” era uno slogan facile da diffondere, ha portato alla nascita di una serie di convinzioni che trovano legittimo riflesso in alcune azioni di Governo.
La cultura è in minoranza
La verità, è che è necessario a questo punto cercare di esprimere in modo più chiaro la valenza economica (e non monetaria) della cultura. Senza necessariamente delegare questa riflessione all’interno di convegni tecnici. Cercando anzi di prendere coscienza di un’evidenza che è quantomai essenziale tenere in considerazione: chi si occupa di cultura rappresenta una minoranza. In quanto minoranza, chi si occupa di cultura deve modulare il proprio lessico e il proprio modo di fare per riuscire ad avviare un confronto con la maggioranza. Confronto che sinora è stato evitato, andando soltanto a contestare, senza spiegare in modo comprensibile eventuali visioni contrastanti.
La ricchezza (non monetaria) della cultura
La cultura, ove opportunamente sviluppata e radicata all’interno di un territorio, genera una serie di cambiamenti nei consumi, nelle fruizioni, nelle riflessioni, nelle idee imprenditoriali. La cultura genera connessioni ed innovazioni che senza cultura non sarebbero possibili. La cultura, se diffusa, non si limita a generare crescita ma pone le basi per lo sviluppo del territorio. E lo sviluppo del territorio non lo si ottiene in un anno, facendo piovere concerti, mostre e turisti. Tutte le best-practice, come chi si occupa di cultura ama definire i casi-studio di successo, hanno richiesto anni prima di essere riconosciute come tali. Prima di generare effetti evidenti.
Spesso richiedono una capacità di pianificazione degli investimenti che nella maggior parte dei nostri territori è semplicemente assente. Spesso richiedono una competenza tecnica che si fatica a rintracciare anche all’interno delle strutture centrali di governo. Spesso richiedono una visione comune tra tutte le istanze della popolazione, con una capacità del mondo culturale di dialogare con le imprese e le industrie del territorio che lo stesso mondo culturale non vuole avviare, rinvenendo nell’imprenditoria una pletora incolta di persone immeritatamente ricche.
Indignarsi non basta
Si tratta di dimensioni di cui bisogna concretamente tener conto se si vuole proporre un’idea di valorizzazione economica differente. Ma si tratta di dimensioni di cui si inizia a tener conto soltanto se si accetta l’idea che chi si occupa di cultura è una minoranza in una democrazia, e non più una élite in un sistema aristocratico. Se vogliamo soltanto avere il diritto di dissentire, stiamo sulla strada giusta. Se la nostra unica ambizione è quella di ergerci a esperti in un mondo che non comprende l’importanza della cultura, stiamo facendo davvero un gran bel lavoro.
Stefano Monti
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