Agrigento 2025 Capitale italiana della Cultura. Sì, ma non è una cosa seria
Polemiche, ritardi e liti da cortile: l’anno della Capitale italiana della Cultura 2025 inizia addirittura con l’ombra del commissariamento. Che però potrebbe salvare tutto
Quando diventò Capitale italiana della Cultura nel 2018, Palermo si guardò allo specchio. E modellò la sua proposta su sé stessa, pensando a quell’anno straordinario come a un evento programmatico. Perno, e pretesto, di azioni proiettate sul futuro, per dare forma e sostanza, linfa e nutrimento a una città pronta a scrivere pagine nuove. Ecco, il senso della futuribilità per quel che già c’era, della cantierabilità di nuove iniziative destinate a durare, il pretesto e i fondi per tessere e dialogare, per riunire istituzioni già consolidate e astri nascenti, grandi e piccoli. L’occasione di fare rete e sistema, di costruire una proposta che declinasse e valorizzasse orgogliosamente l’identità culturale di Palermo. Di questa progettualità, di questa visione, ad Agrigento, Capitale italiana della Cultura 2025, non c’è traccia alcuna.
Agrigento 2025. Come arriva la città all’anno da Capitale italiana della Cultura?
A parte il paesaggio della Valle dei Templi, assediato visivamente e acusticamente dall’incombenza palazzinara del contemporaneo, dal carosello di auto attorno, la città di culturalmente strutturato aveva, e ha, poco o nulla. Per questo, chiamata alla prova dei fatti, in spaventoso ritardo sui tempi di marcia si arrabatta a fare ammuina, con azioni scoordinate, inadeguate alle aspettative. Non sorprende la reazione scomposta alle polemiche sugli strafalcioni della cartellonistica stradale recante contrata invece di contrada, sciocchezze su cui si sono accaniti in tanti, interpreti della cultura come estensione di quel campo di battaglia che è sovente il quotidiano (gli stessi che a Parma, nel 2020, ironizzarono a lungo quando si svelò la targa intitolata a Federico II “di Svezia”). La vicenda, piuttosto, scopre nervi a fior di pelle per i vistosi ritardi degli stessi progetti e il confuso contesto in cui tutto avviene, commenta Felice Cavallaro, giornalista, scrittore, ideatore di quella Strada degli Scrittori che nell’agrigentino unisce luoghi dell’anima di Pirandello, Sciascia, Camilleri, Tomasi di Lampedusa.
Perché Agrigento è impreparata a sostenere l’appuntamento
Ad Agrigento, purtroppo, è accaduta la cosa peggiore che le potesse capitare: vincere. A competere per il titolo di Capitale italiana della Cultura c’erano Spoleto, Assisi, Orvieto (solo per citarne alcuni), colossi culturali come li ha definiti il sindaco di Agrigento che, un po’ per farsene convinto, un po’ per dovere istituzionale, da un anno a questa parte riporta nei suoi discorsi la strategia della vittoria. “Quando ho presentato Agrigento alla candidatura nel 2023” ha candidamente raccontato “non l’ho presentata come fosse a posto dal punto di vista dei servizi, del decoro urbano, dal punto di vista architettonico, urbanistico. L’ho presentata, ahimè, come una città che ha tantissimo bisogno di crescere. Siamo riusciti a batterli perché abbiamo presentato Agrigento come una città bisognosa, però laboriosa”.
Ritratto poco edificante, (im)pietoso, di una città dove l’ordinario appare straordinario, oggi in piena emergenza idrica, con una mobilità da spavento, culturalmente pigra e periferica, che dichiarandosi onestamente impreparata è stata inspiegabilmente premiata per i suoi “farò”. Così, a poche ore dall’arrivo del presidente Mattarella, oggi in piena emergenza idrica si trova quasi a maledire la pioggia che filtra dal tetto-colabrodo del teatro Pirandello, rattoppandolo per tirare avanti (come dichiarato da uno sconsolato tecnico comunale). Un’intenzione, dunque, più che un progetto, fondata su soldi che non ci sono e che si spera arriveranno, che precipita la sua attività di richiamo sulle spalle della Valle dei Templi, unico argine alle ondate di turisti mordi e fuggi.
Cosa non è stato fatto. I buoni propositi non mantenuti
Eppure, di questo suo essere periferia, Agrigento poteva farne punto di forza, segno distintivo, con l’orgoglio dell’outsider che spariglia le carte, prendendo a modello l’esperimento riuscito, a suon di testardaggine e iniziativa privata, di Farm Cultural Park, santuario dissacrante di arte contemporanea nel pieno del centro storico della vicina Favara. Non lo ha fatto. Qualche giorno fa, il presidente nazionale di Assoturismo ha denunciato, allarmato, l’assenza di governance per Agrigento 2025. Come fosse una novità, visto che la cabina di regia che riunisce e coordina tutti gli enti coinvolti per Agrigento Capitale della Cultura si è insediata solo a dicembre 2024 in un buco tra Natale e Santo Stefano, con il Prefetto che ha tenuto “a sottolineare la collaborazione tra le parti interessate, in un’ottica di fluidificazione del percorso”. Richiamo più che doveroso, imperativo, visto che la collaborazione più che fluidificarsi tende a liquefarsi.
Polemiche e pasticci intorno ad Agrigento 2025
Infatti, per sopperire ai righi vuoti, ai compiti non svolti, a un calendario fantasma su cui non trapela nulla, è stato lanciato un mayday a Comuni ed enti del territorio. Una richiesta di unità e di cooperazione, secondo la tattica del “prendere a prestito e poi si vedrà” che però, in una regione dalla cronica tendenza alla divisione, mostra tutti i suoi limiti e rischi. Lo dimostra la vicenda delle Fabbriche Chiaramontane, spazio espositivo e culturale agrigentino defunto nel 2017 e resuscitato nel 2023 con cinque anni di prognosi: tanto dura l’affidamento alla storica Fondazione Orestiadi di Gibellina che lo ha riempito con opere tratte dalla sua collezione. Prognosi benevola a dire il vero, vista la recentissima spaccatura carsica che ha inghiottito il presidente della Fondazione Calogero Pumilia, accompagnato alla porta perché colpevole di un’iniziativa che, secondo i critici, sottrae risorse umane finanziarie a Gibellina, fresca di nomina a Capitale dell’arte contemporanea 2026 con alle porte l’ennesima stagione di riscatto (da cosa poi dovrebbe riscattarsi una città visionaria, con opere e musei straordinari, qualcuno dovrebbe spiegarlo). Altro capitolo riguarda la collaborazione con la Fondazione Leonardo Sciascia di Racalmuto. L’ente della città natale dello scrittore siciliano è stato per anni barcollante, ridotto al lumicino, al centro di polemiche: defibrillato grazie a recenti finanziamenti regionali resta al centro di piccinerie e beghe locali. È dell’estate scorsa il veto del sindaco di Racalmuto al cartellone estivo della Fondazione. Ma che ci fosse da tempo aria di schiaffi insolenti lo sa bene ancora Felice Cavallaro, che nel 2019 venne escluso dal CdA della fondazione, con strascico di polemiche e diffide.
Per ora, in attesa che si sveli il travagliatissimo calendario degli eventi della Capitale italiana della Cultura 2025, nella Valle dei Templi tutto tace da giorni. Perfino quando il sicilianissimo Pietrangelo Buttafuoco, presidente della Biennale di Venezia, ha recisamente proposto di commissariare Agrigento Capitale italiana della Cultura “anche a costo di essere sgarbati nei modi”, nessuno ha fatto un fiato. Si è avvertito solo un profondo sospiro di sollievo.
Gabriele Mulé
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