Il destino delle città nel futuro post-pandemia
La pandemia ancora in corso ha mostrato il lato problematico delle città, i cui centri si sono svuotati per l’assenza di turismo. Ma allora qual è il futuro del territorio urbano? E quale ruolo spetterà alle periferie?
Se la città fosse una specie, e la cultura fosse soggetta alle leggi della selezione naturale, probabilmente sarebbe già scomparsa. E si potrebbe vedere nella presenza onnivora del turismo una forma di terapia intensiva di ciò che resta di essa.
La pandemia, come in un film di fantascienza, ha reso i centri storici luoghi deserti, residui culturali, dove la presenza dell’uomo, con le sue relazioni e compromissioni sociali, è in via d’estinzione. La città-fiction, la città-cartolina, la città-museo, la città consumo, senza la terapia intensiva del turismo, è una città morta. In essa l’uomo scompare dietro il turista. Allo stesso modo la città scompare dietro la sua immagine pubblicitaria in un monologo fatale. Niente a che vedere con le piazze vuote fotografate da Eugène Atget agli inizi del secolo scorso.
VUOTO E PANDEMIA
Nei primi anni del Novecento la percezione del vuoto metropolitano appariva come una sorta di “inconscio ottico” (Walter Benjamin) che separava, al modo di una buccia, l’uomo dall’ambiente circostante. La percezione del vuoto urbano era vissuta come una scoperta di archeologia del presente, dove la città poteva essere riscoperta come un veicolo di esperienze fuori dalle abitudini quotidiane. Le fotografie di Atget hanno registrato ciò che restava della città in una società votata alla saturazione dello spazio urbano con i manifesti pubblicitari, la cui metamorfosi, oggi, è il culto indiscusso del brand di una città. La fotografia di Atget, per Walter Benjamin, registrava questo isolamento fenomenico, fino a vederlo anche nelle espressioni dei volti.
Ma il vuoto o il deserto generato dalla pandemia ha un altro volto. Un esempio: il vuoto di Las Vegas durante la pandemia aveva qualcosa di spettrale e magico allo stesso tempo. La città-insegna per eccellenza, la città della persuasione totale al gioco d’azzardo, ha vissuto per mesi nello splendore della sua inutilità, che si è aggiunto allo splendore effimero della sua pubblicità.
IL RUOLO DELLE PERIFERIE
In questo scenario, in alcune città storiche, le periferie si prendono una rivincita. In esse lo scambio sociale, non mediato dal turismo, paradossalmente ha ancora luogo. Ma le periferie di città come Napoli, Istanbul o Rio de Janeiro – città storiche ma con altri destini – non sono uguali a quelle di città come Firenze o di altre bomboniere storiche. In quest’ultima la museificazione dello spazio urbano ha comportato la scomparsa del patrimonio relazionale a vantaggio dell’unica forma di relazione sociale in essa consentita: il consumo della storia. A Napoli o a Palermo, invece, la periferia agisce come propulsore del disordine, un agitatore dell’equilibrio sociale – esiste come un sommovimento che dagli estremi della cinta urbana accerchia la città vecchia e sovverte ogni ordine sociale. C’è una violenza della gentrificazione e della religione del brand a cui risponde, come in uno specchio, una violenza della periferizzazione di vaste aree della popolazione espropriata dei suoi luoghi d’origine.
Se la città è un sogno a occhi aperti come vuole la propedeutica al consumismo, occorre capire la natura di questo sogno. Se esso è trasportato dalla seduzione feticistica della città-cartolina, oppure se agisce come il flâneur di Baudelaire, che gironzola senza scopo, sognando la sua inutilità radicale in un mondo dove tutti recitano con ossequiosa disciplina la parte di un utile consumatore.
‒ Marcello Faletra
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #61
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