Diario di Cerere, un frammento
È una delle fondazioni più attive dell’orizzonte romano. Spazi aperti, artisti e curatori in residenza, collaborazioni sul territorio e di livello internazionale. È la Fondazione Pastificio Cerere che, sfidando i capitolini allarmi dei bollettini meteo dei giorni scorsi, ha aperto le porte a ospiti molto particolari.
Il sole aveva già trasformato la neve in ghiaccio, mentre i telegiornali non parlavano che di maltempo. C’è chi, a Roma, non è andato a scuola, chi ha riconosciuto il valore del sale, qualcuno si è affannato tra facebook e mailing list, c’era un opening da posticipare.
Per non smarrire la loro natura, le linee rette non possono schivare le tangenze e gli imprevisti. Senza alternativa, una linea dritta arriva alla meta, senza farsi toccare dalla neve e dal disordine per incrociare un giorno di sole, il placido ritorno alla normalità di una domenica; cinque febbraio.
Stretto tra i ferri delle rotaie, i fili dei tram e i centri deposito, tra le vie di cemento e le pene della sapienza, vive il Quartiere San Lorenzo, sospeso tra un Novecento d’attualità, antiche forme di devozione e banconote di piccolo taglio. Ore 11.30, l’appuntamento è in via degli Ausoni 7, in una mezz’ora il cortile ancora fradicio del Pastificio Cerere si anima di spigliate forme di cortesia, della vibrazione di piccoli passi. Nel giro di dieci minuti le sessanta e più persone raccolte assumono una nuova e passeggera forma d’appartenenza; il rosso, il blu, il verde, i tre gruppi tagliati su misura degli atelier che si apprestano a calpestare.
Si dà il caso che siamo diventati adulti, siamo usciti dalle università, è il tempo di occuparci di cose serie, la parola d’ordine, da qualche tempo ormai, è aprire le porte. Un esercito di consumatori è chiamato a occupare, impegnare e abbandonare i luoghi della funzione della cultura. Il nuovo diktat impone la partecipazione, nessuna distanza è tollerata. Si dà anche il caso che questi ultimi anni, e i prossimi, saranno ricordati come anni di recessione, e si sa, le fondazioni non possono brillare di luce propria, in tempo di crisi sono le voci di spesa secondarie le prime a saltare.
A queste due, diverse dinamiche la Fondazione Pastificio Cerere formula la propria, personale risposta, una mossa intelligente e realista. Si possono prendere due piccioni con una fava, si possono allargare le braccia votandosi, per una volta, a un corpo ristretto di utenti.
L’ecosistema dell’arte contemporanea ha infatti una fauna variegata: imbrattatele, qualche artista, galleristi, lobbisti, speculatori e poi curatori, critici, faccendieri, giornalisti, tecnici, stagisti, parvenu. C’è poi il motore immobile, il quarto cerchio, i veri spettatori in palco del teatro dell’arte: i collezionisti. Ebbene, senza liquidi, il corpo deperirebbe.
Questa domenica di febbraio tiene in serbo qualcosa di speciale per loro. Qualcosa di raro che in città si polarizza in pochi luoghi distinti: qualcosa di speciale come frammenti di storia dell’arte contemporanea e della giovane produzione che abbonda tra le luminose stanze che dal 1905 al 1961 costituivano la gloriosa semoleria-pastificio Cerere. Quando Nunzio e Giuseppe Gallo e poi Gianni Dessì, Pietro Pizzi Cannella, Oscar Turco, Bruno Ceccobbelli e Marco Tirelli trasformavano uffici e magazzini in atelier, gli artisti della seconda generazione Cerere portavano corte braghette.
Gli ambienti del pastificio, le sue anime, le sue vicende, sono diventate in trent’anni fulcro di cemento della vita artistica romana riconosciuta a livello nazionale e internazionale. È su questo prezioso patrimonio che si innesta la Fondazione immaginata e creata nel 2004 da Flavio Misciattelli e oggi diretta da Marcello Smarrelli.
Mani in tasca e sciarpe al collo, il sole è già alto ma non vince un’aria che non fa sconti. I tre gruppi lasciano il cortile per prendere strade diverse, si incrociano sulle scale, condividono il cammino, si susseguono negli studi di Giuseppe Gallo, Paolo Tamburella, Nunzio, Francesco Fonassi, Pietro Ruffo e Marco Tirelli. Artisti in rappresentanza. Le visite sono agili, si evoca il passato mentre le opere sui tavoli, appoggiate alle pareti, i tubetti di vernice lasciati aperti, le spine attaccate alle prese elettriche parlano di un presente inequivocabile. Ognuno cerca le parole più adatte per rappresentarsi, una modestia riflessa d’imbarazzo porta a un’autoironia liberatrice, tra gli ospiti della Fondazione c’è pur sempre Richard Armstrong, direttore del Guggenheim di New York. Nella scaletta della mattinata non manca il tempo per la visita ai 150 mq della Fondazione che ospitano i due interventi di Lara Almarcegui dai titoli molto Lina Wertmüller: Guida alle aree abbandonate del fiume Tevere, 12 spazi deserti che attendono le Olimpiadi del 2020 di Roma e Calcinacci di costruzione dello spazio espositivo entrambi realizzati in dialogo col curatore in residenza Vincenzo de Bellis.
Metà pomeriggio, sarà presto l’ora celeste, la seduta si scioglie, gli ospiti lasciano l’edificio, qualcosa finisce per qualcuno, qualcosa inizia per altri. La Fondazione invece muta forma ma non sostanza, per chi vive d’arte, ogni giorno e domenica, nessun giorno è domenica.
Luca Labanca
FONDAZIONE PASTIFICIO CERERE
Via degli Ausoni 7 – Roma
06 45422960
[email protected]
www.pastificiocerere.com
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