Marco Pezzotta. O della possibilità di continuare a girovagare
Giovane lombardo di stanza a Berlino, Marco Pezzotta incarna una declinazione dell’essere artista nel nuovo millennio. Una breve analisi del suo lavoro l’ha scritta per Artribune la curatrice Maja Ciric, commissario del Padiglione della Repubblica di Serbia in occasione della 55. Biennale di Venezia.
Molti dei titoli utilizzati da Marco Pezzotta (Seriate, 1985; vive a Berlino) – Elements for Before, Significant Others, Relevant for Before, Now, assuming that all of this is real, I like both the thing and the rest, Yes, or at least maybe – sembrano confrontarsi con un’alterità spaziale, cronologica o culturale. È come se attraverso essi l’opera cercasse di non limitarsi a funzionare esclusivamente nel presente, ma si dischiudesse al contempo allo scorrere cronologico della storia e a ogni possibile scenario futuro.
Standard del 2011 può essere utilizzata come chiave per introdurre il processo che conduce Pezzotta alla realizzazione dell’opera. Ognuno dei blocchi che compongono l’installazione è formato a sua volta da fogli in formato A4 sui quali l’artista opera una variazione fisica minimale che mira a dare unità all’intero sistema, mettendolo nella condizione di sperimentare opportunità diverse di essere sé. Compattando, dipingendo o fresando i bordi delle carte, ogni elemento mantiene inalterato il proprio formato, restando pressoché identico a se stesso, ma diviene in grado di modificare la struttura e l’uniformità dell’insieme nel quale si colloca. Come trattandosi di uno schema sociale verosimile, l’opera si propone un tentativo di comprensione e simulazione dei fondamenti di un sistema collettivo, esercitata attraverso la pluralità e la ripetizione di tracce visive.
Con un processo analogo, Peaceful Planet (2013) si articola attraverso l’organizzazione di elementi che costituiscono nel complesso un’unica situazione, le cui parti si dispieghino simultaneamente, ancorate all’interno di un pensiero condiviso dal quale si sviluppano. Essendo coinvolti da un’esplosione d’informazioni e in infinite possibilità di manipolazione delle immagini, diviene impensabile operare e controllare un apparato visivo: un cambio all’interno della percezione e della fruizione può quindi provenire dal lavoro di un artista che si interroghi visivamente su un tale aspetto, anziché ignorarne gli effetti.
Non volendo mai proporre un’immagine stabile, i progetti di Pezzotta agiscono, illudono e propongono una molteplicità di punti focali che mirino a maneggiare l’esperienza fruitiva più che l’immagine stessa. Il bisogno di manipolazione è incessantemente sfogato attraverso variazioni minime di una scenografia già anomala, fatta di fuori fuoco e di tessuti molli ripiegati o stesi al suolo. L’obiettivo non è costituire un esercizio attraverso una variazione del registro visivo, ma esprimere e sperimentare il bisogno stesso di destabilizzare l’immagine per riconoscere l’esistenza di un qualunque “altrove” rispetto all’esperienza stessa; ricercare nell’immagine un’unità intermittente che si legittimi nell’alternanza di tutti i suoi elementi. Nessuna delle parti impone la propria specificità, ma è la mostra in sé, pensata come esperienza di un tutto maggiore della somma delle sue parti.
Tali posizioni coinvolgono indirettamente la condizione del sistema dell’arte quale primo luogo di distribuzione e destinazione di un significato. Le implicazioni culturali del lavoro di Pezzotta sono da leggere quali tracce di una generazione instauratasi nello spazio compreso tra le città, e che mira alla rappacificazione mondiale attraverso l’occupazione dei divari culturali e si muove giocando nelle crepe della globalità. Peaceful Planet incarna una generazione di artisti non radicata in nessun luogo (se non il pianeta stesso, con tutte le sue implicazioni e contraddizioni visive) e la cui posizione individuale esiste solo nel suo essere polivalente con e oltre ogni aspetto formale.
Pezzotta cerca quindi di costruire un significante muovendosi tra un processo unitario e la sua decostruzione. Non si tratta di essere fedeli a un unico regime visivo, ma di ciondolare e girovagare tra registri spaziali, temporali e potenzialità culturali, mirando a scoprire o creare nuove trame o nuovi territori. L’intera pratica di Pezzotta può essere letta come un tentativo di portare senso al persistente fluire delle immagini, cambiandone gli aspetti formali e culturali attraverso la sua stessa disgregazione.
Maja Ćirić
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati