Mike Kelley. Due volte best
Nei primi giorni dell’anno, su Artribune abbiamo pubblicato una dibattutissima (in redazione e coi lettori) classifica dei “best of” del 2013. Il nome di Mike Kelley ricorre due volte: come “miglior artista affermato” e come “miglior mostra” in riferimento all’evento prodotto e ospitato dall’Hangar Bicocca a Milano.
La mostra di Mike Kelley all’HangarBicocca di Milano è stata la prima a essere allestita dopo la morte dell’autore, dunque ha un tale triste primato, ma soprattutto ha avuto il merito di raccontare un lato probabilmente meno noto dell’artista di Detroit.
Per conoscerne invece in maniera per così dire enciclopedica l’opera, vi segnaliamo una mostra e un libro a essa collegato. Si tratta della grande retrospettiva, che almeno in parte Kelley è riuscito a supervisionare, nata allo Stedelijk Museum di Amsterdam (dicembre 2012-aprile 2013) grazie alla tenacia di Eva Meyer-Hermann e che poi ha circolato al Centre Pompidou di Parigi (maggio-agosto 2013), al MoMA PS1 di New York (ottobre 2013-febbraio 2014) e infine giunge al MOCA di Los Angeles (marzo-luglio 2014).
Il volume che la accompagna, edito dalla casa editrice tedesca Prestel (pagg. 400, $ 85) e curato dalla stesso Meyer-Hermann e da Lisa Gabrielle Mark, è senza ombra di dubbio il più completo stampato finora su Mike Kelley. A livello di saggi, gli interventi sono pochi ma ben calibrati, comprendendo un testo introduttivo di John C. Welchman (il critico che ha seguito con maggior continuità l’opera di Kelley, benché forse non ne sia stato il miglior interprete) e, dopo il corpus iconografico, interventi più estesi a firma di Branden W. Joseph (Fake Rock: Mike Kelley’s Music), dello stesso Welchman (Mike Kelley and the Comedic), di George Baker (Mike Kelley: Sublevel) e, per chiudere, una intervista – l’ultima, almeno di questa portata – dell’artista con la curatrice.
Preziosa anche la sezione dei cosiddetti “apparati”, non tanto per la bibliografia (perché debba essere “selezionata” in un volume del genere non è affatto chiaro) quanto per la catalogazione di performance, reading, “other events”, videografia e discografia.
Ma è in mezzo che risiede la parte migliore, fra l’introduzione e il resto dei saggi: 300 pagine tonde tonde di opere commentate da brevi testi emersi dalla discussione con l’artista, che coprono un arco di tempo che va dal 1974 al 2012. E dentro c’è tutto, o quasi, ha fatto Mike Kelley in quasi quarant’anni di lavoro. Non un catalogo generale, certo, ma un passo importante in quella direzione.
Marco Enrico Giacomelli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #17
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