Brain Drain. Parola a Lavinia Filippi
Partita per amore, Lavinia Filippi lavora come curatrice e visiting professor a Lahore in Pakistan, un Paese sfidante e percepito come pericolosamente coinvolto con il terrorismo internazionale. Eppure lei sta vivendo un’esperienza unica di conoscenza del fermento culturale locale che, come altri Paesi meno coinvolti nel mainstream dell’arte contemporanea, è più aperto a estetiche diverse e alla ricerca. Un’altra italiana di eccellenza che lavora nella cultura con successo.
Pakistan, paese fuori dagli stream del mercato dell’arte occidentale. Come sei arrivata lì?
Sono arrivata per amore, e di certo non mi aspettavo di scoprire una scena contemporanea così appassionante e viva, né di rimanere così a lungo – tre anni! – e neanche di riuscire a fare le cose che ho fatto.
Quando si sente parlare di Pakistan in genere è per violazioni dei diritti umani, estremismo religioso e attentati. In realtà è solo uno dei mille volti di questo incredibile Paese. Il panorama artistico locale è così interessante proprio per il fatto di essere alquanto isolato e fuori dai circuiti del mercato, sia occidentale che orientale. A parte qualche grande nome riuscito a emergere, la maggior parte degli artisti sono immuni dalle “leggi commerciali”, anche perché non hanno dietro di loro gallerie abbastanza potenti da influenzare le loro scelte creative. Inoltre, essendo un giovane Paese, indipendente dal 1947, ha vissuto periodi intensi e difficili, e gli artisti hanno tante storie da raccontare e un forte bisogno di comunicare.
Che professione svolgi e con quale tipo di contratti?
Sono Visiting Associate Professor al National College of Art di Lahore. Ho tenuto dei seminari anche all’omologa Università di Rawalpindi. Sono, poi, corrispondente da Islamabad e dall’estero per la rivista online Art Now Pakistan, oltre a continuare a scrivere per varie pubblicazioni internazionali e curare mostre da free-lance.
Tra i miei ultimi progetti: I.D., una collettiva presentata in occasione dell’ultimo Festival della letteratura di Islamabad, e Stills of Peace and everyday life (Islamabad, 2013 e Atri, 2014), una mostra che fa dialogare artisti italiani e pakistani che si esprimono attraverso la fotografia e il video. Infine, sono stata coinvolta dalle Nazioni Unite come presidente del board di Art for Peace 2014, una piattaforma aperta a giovani pakistani che vede nell’arte uno strumento per parlare di pace.
Temi politici e instabilità del Paese ti permettono di lavorare liberamente?
La situazione in Pakistan è complessa: l’instabilità permanente rende difficile la sua definizione e qualunque tipo di bilancio. La comunità artistica, molto “gender balanced”, è aperta e unita grazie anche a istituzioni antiche e prestigiose, come il National College of Art di Lahore che, fondato all’epoca della colonizzazione britannica, è ancora oggi un importante punto di riferimento per la cultura pakistana. Inoltre, l’arte ha qui sempre vissuto una condizione “privilegiata”, che le ha permesso di arrivare oggi a un livello qualitativo che non teme confronti.
Tuttavia, la Repubblica Islamica del Pakistan, non è uno stato laico e per lavorare serenamente a queste latitudini bisogna rispettare le sue peculiari caratteristiche.
Quali sono i luoghi dell’arte?
I due centri per l’arte contemporanea sono Lahore e Karachi. Le due città sono molto diverse tra loro, e lo è anche l’arte che ne proviene.
Lahore è una città storica, antica, la capitale culturale del Paese. È una delle metropoli più sofisticate che conosco. Ricca di storia e di monumenti, doveva essere uno dei luoghi più amati dagli imperatori Moghul, in particolare da Jehangir e Shah Jahan, che hanno lasciato preziose testimonianze. Non è un caso che proprio qui, intorno alla metà degli Anni Novanta sia stata riscoperta e attualizzata alle necessità contemporanee una tecnica antica, proveniente dalla Persia, quale la pittura miniaturista. È questa, stravolta, attualizzata e personalizzata, che rende così unico il lavoro di Shazia Sikkander, Imran Qureshi o Aisha Khalid.
Karachi invece è una megalopoli da 23 milioni di abitanti, centro finanziario e porto commerciale del Paese. Qui è nata, sempre all’inizio degli Anni Novanta, la corrente artistica “Karachi Pop”, che ammiccava all’Occidente citando però la cultura popolare e folcloristica del Subcontinente.
La religione, la complessa situazione geopolitica che vive la regione e il non sempre facile rapporto con l’Occidente sono le tematiche che influenzano maggiormente l’arte contemporanea locale.
Esistono vantaggi per un professionista della cultura che voglia lavorare in Pakistan?
Sono molto felice della mia esperienza qui, che considero particolarmente arricchente. Ero un po’ “annoiata” dall’arte contemporanea quando ho lasciato l’Italia. Invece qui ho capito che il problema non ero io, ma l’arte! Credo che il Pakistan stia vivendo un momento importante: accade qui qualcosa di speciale. Nonostante l’isolamento, grazie a Internet, ai maggiori spostamenti aerei e al tragico attentato dell’11 settembre, il mondo ha cominciato a guardare il Pakistan. Per gli stessi motivi, il Pakistan e in particolare gli artisti si sono trovati davanti a un pubblico molto più ampio e variegato, con il quale hanno sentito il bisogno di comunicare cercando un linguaggio più onnicomprensivo.
Il Pakistan è un Paese con grandi prospettive e gli italiani sono tra i più benvoluti: in futuro si potrebbero quindi aprire interessanti opportunità. Tuttavia, al momento la particolare situazione sociopolitica ed economica lo rendono ancora una “sede disagiata” anche per gli amanti dell’arte.
Cosa pensi dell’Italia? E cosa pensano i pakistani di noi?
L’Italia mi manca e mi è sempre mancata; io amo l’Italia. Da qui sento spesso lamentele da casa: tante storie di disagio in un periodo storico non particolarmente fortunato per noi. Ma guardando all’Italia dal Pakistan si acquisisce una diversa prospettiva, relativizzando la pur difficile crisi che vive l’Europa. Ovviamente bisogna sempre cercare di migliorare, ma a mio avviso bisogna anche tener conto della propria natura, della propria cultura, e soluzioni che funzionano per altri non sono per forza le migliori per noi.
I Pakistani ammirano il nostro Paese, le nostre eccellenze, la capacità di sopravvivere al terrorismo degli Anni Settanta, sconfiggendolo e diventando una delle economie leader del mondo. Più in particolare nel campo culturale, guardano con attenzione al nostro passato e studiano la nostra storia dell’arte. L’élite del Paese visita spesso l’Italia, dove peraltro vive e lavora la più grande diaspora pakistana in Europa continentale, forte di circa 180mila persone.
Quali politiche culturali promuove il Pakistan?
Come dicevo prima, l’instabilità che vive il Paese – che ha visto la sua prima transizione democratica da un governo eletto a un altro, in meno di sessant’anni di esistenza, poco più di un anno fa – non gli permette di avere, al momento, progetti a lungo termine in questo ambito. Inoltre, come purtroppo spesso succede quando ci sono più impellenti priorità, l’arte e la cultura sono messe in secondo piano. Il Pakistan deve affrontare, infatti, gravi problemi di sicurezza, deficit energetico e una crisi economica, oltre a conflitti interetnici e intrareligiosi.
Le iniziative culturali sono, dunque, spesso lasciate a privati o a sponsor istituzionali stranieri (tra cui l’Italia, che ha tre missioni archeologiche e ha costruito un museo nel centro-nord del Paese), come il Festival della Letteratura di Lahore e quelli di Karachi e Islamabad.
Ci sono chiaramente alcune eccezioni: la Provincia meridionale del Sindh ha organizzato un enorme festival culturale lo scorso anno proprio per consentire alla popolazione locale di “riappropriarsi” della propria cultura tradizionale, minacciata anche qui dalla globalizzazione.
Un messaggio per l’Italia?
Più che un messaggio, una riflessione: forse questo non è un periodo particolarmente felice per il nostro Paese, però siamo uno dei popoli più ammirati e rispettati al mondo con un bagaglio storico-culturale unico.
Infine, come dimostra questa rubrica di Artribune, se non siamo soddisfatti professionalmente in Italia, con un passaporto europeo siamo liberi di spostarci e di andare a cercare una “vita migliore” praticamente ovunque. E non è così per molti.
Neve Mazzoleni
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