Perché hai cercato esperienze internazionali?
Per finire il mio dottorato sulle teorie postcoloniali e il sistema dell’arte iniziato a Roma. Per fare ricerca sul campo, per trovare libri e risorse che non c’erano altrimenti. Per tre anni ho fatto lunghe residenze a L’Avana, per consultare l’archivio della Biennale. Da Cuba ho iniziato a osservare il mondo da una prospettiva pan-terzomondista, e a praticare una ricerca curatoriale fondata su partecipazione e decostruzione del linguaggio freddo dell’arte contemporanea occidentale. L’esperienza cubana si è conclusa con la costruzione di un medialab indipendente insieme al collettivo Omni Zonafranca (insieme all’Associazione Inventati di Firenze, finanziato da un bando dell’Unione Europea). Poi ho insegnato all’Instituto Superior de Arte (invitata anche alla Cátedra Arte de Conducta di Tania Bruguera) e infine ho curato la partecipazione dell’Italia (con Ogino Knauss) alla Biennale de L’Avana 2006. Subito dopo mi è stata offerta una borsa per concludere la tesi all’Africana Studies Research Center della Cornell University, una università Ivy League di quelle con il campus di finti edifici gotici immersi nel verde, come in Harry Potter.
E ora dove vivi?
Vivo a Bruxelles, dove ho appena avviato un’organizzazione, Mòsso, che si occupa di cooperazione culturale multidisciplinare tra Europa, Africa e America Latina; insegno all’Accademia di Belle Arti de L’Aquila; ho dei progetti che si realizzano attraverso l’Olanda; dirigo un master in Etiopia e ho in progetto un progetto di residenze in Colombia; visito regolarmente mostre e biennali in Europa, Africa e America Latina. In questo momento scrivo da Janaklees, un centro d’arte indipendente di Alessandria d’Egitto, dove Sherif El Azma mi ha invitata a lavorare alla parte teorica di un workshop sull’audiovisivo sperimentale.
Dopo Cornell, era difficile ritornare a lavorare come precaria alla Sapienza. Ho accettato un’offerta di lavoro a Bruxelles e parallelamente vinto una supplenza all’Accademia de L’Aquila. La supplenza si proroga da sette anni, continuo la mobilità tra Roma e Bruxelles. Ho cercato di radicarmi in Italia, ma è troppo complicato adattarmi alle modalità delle “corti papali”.
Com’è Bruxelles?
Nel 2007 non era ancora à la page come oggi ed era il contrario di Roma: grigia, apparentemente bruttina, con un centro non gentrificato e malandato. Eppure mi sento tuttora bene in quest’ambiente dove la mia schizofrenia linguistica “spanglitaliana” è la norma, visto che tutti passano dal francese all’inglese al fiammingo. Ho imparato ad avere relazioni adulte con le istituzioni, a consultare i siti del ministero della cultura per trovare finanziamenti per i miei progetti, ad avere una prospettiva di mobilità permanente. E così i miei studi accademici sul post-coloniale e la pratica di progetti tra educazione e trasformazione sociale sviluppati da artisti in America Latina e Africa hanno trovato un radicamento nella città più creola e multietnica dell’Europa occidentale. Bruxelles non è, come si dice, la Fortress Europe, bianca e cristiana, che sembra.
Quali insegnamenti hai tratto in Italia?
Ho lavorato al MLAC durante il dottorato, realizzando mostre, pubblicazioni e una rivista, oltre a fare l’assistente in una cattedra di Storia dell’Arte Contemporanea nel dipartimento di Arte dell’Università La Sapienza. Ho imparato molto, ho avuto modo di sperimentare con la produzione culturale. Il MLAC mi ha permesso di unire “l’estetico al politico”, trovando una linea di ricerca accademica sui cambiamenti sociali della globalizzazione.
Credo di aver costruito in Italia la mia personalità culturale e politica; l’interesse per la letteratura postcoloniale è l’estensione dell’esperienza e dell’aderenza ai movimenti sociali. E la totale mancanza di supporti istituzionali mi ha permesso di sviluppare delle qualità pragmatiche che pochi hanno nei Paesi dell’Europa settentrionale e socialdemocratica.
Cosa manca in Italia per essere leader nelle politiche culturali?
Manca un sistema istituzionale che sostenga e promuova la produzione di sapere e la sua distribuzione. L’Italia produce cultura ma non grazie a chi la gestisce. Uno spreco di potenzialità che non emergono per mancanza di fondi strutturali. Solo chi ha iniziativa individuale porta avanti la produzione.
L’Olanda compare nelle mappe del contemporaneo per volontà della sua classe politica, che finanzia le istituzioni ma anche gli spazi indipendenti, gli artisti, chi produce sapere e fa ricerca, chi vuole viaggiare e chi si stabilisce nel Paese. I media center sparsi per l’Olanda (nati dalla ricerca e sperimentazione suono/immagine e dall’attivismo) erano squat occupati da artisti negli Anni Settanta e Ottanta (vedi V2_ di Amsterdam e Netherlands Media Art Institut). Mondriaan sostiene la partecipazione di artisti olandesi – e residenti sul territorio olandese – a eventi internazionali. Così fa anche la diplomazia tedesca, francese, britannica, belga, che in Africa e America Latina promuove la cultura nazionale e sostiene anche artisti del Paese che li ospita. I Centri italiani propongono corsi cari e sprecano i soldi con inutili eventi istituzionali e paludati. Persino in Georgia si fanno concorsi internazionali per il padiglione alla Biennale di Venezia (ho vinto il concorso quest’anno ma per motivi budgetari il padiglione non si farà). In Italia le nomine avvengono per volontà politiche, non sempre comprensibili.
Sto portando un progetto di scambio Sud/Sud alla prossima Biennale di Dakar: degli artisti afro-discendenti da Brasile, Cuba e Colombia che lavoreranno con organizzazioni locali. Per trovare i soldi ho bussato a parecchie porte internazionali. La cooperazione culturale belga sosterrà la mia partecipazione. La diplomazia italiana invece (nonostante sia una docente di un’istituzione pubblica) non solo non ha dei bandi ai quali possa fare riferimento per mobilità e produzione internazionale: non è nemmeno abituata a rispondere.
Quali visioni culturali hai incontrato che potrebbero essere modello per l’Italia?
In Colombia il Ministero della Cultura finanzia progetti nazionali nei quali gli artisti vanno a lavorare in residenze in luoghi remoti del Paese: a partire dagli Anni Novanta, le arti visive sono pensate come un utensile per lo sviluppo sociale di determinate comunità. Sempre in Colombia, ogni anno esce un libro di 400 pagine con tutti i bandi nazionali e internazionali, che prevedono premi di produzione, promozione, mobilità nazionale in entrata e uscita. Il Goethe Institute in Africa e America Latina finanzia la mobilità degli artisti locali all’interno del continente. L’Institut Français ha dei bandi annuali per sostenere progetti multidisciplinari internazionali (cioè promossi da associazioni non obbligatoriamente francesi) che coinvolgono la Francia e la francofonia. In Olanda, Prince Claus e Arts Colaboratory costruiscono reti di professionisti internazionali e sostengono progetti culturali nel sud globale… Devo continuare?
Quali sono i tuoi riferimenti?
Il museo: lo Stedelijk Museum Bureau di Amsterdam produce mostre, risultato di progetti di ricerca svolti in cooperazione con entità e professionisti olandesi e internazionali. Finanzia la sua programmazione inviando progetti a bandi. Il direttore risponde nel giro di mezza giornata a mail e chat. In Italia ho bisogno di accrediti personali per ottenere le attenzioni di qualche direttore (che, ça va sans dire, è un burocrate che lavora per il ministero, non un curatore che visita la Biennale di Dakar, va a piedi e cerca di non sprecare soldi pubblici in hotel di lusso e limousine privata per muoversi).
L’associazione: Scénographies Urbaines, di base a Parigi, che da dieci anni porta avanti un festival/residenza itinerante nelle capitali africane. Diversi artisti africani sono invitati a vivere per un mese e produrre una ricerca sul campo in un quartiere specifico di una città del continente. Budget minimali di produzione; condizioni di vita totalmente immerse nel contesto; progettualità fondata sulla relazione e non sulla museificazione. Ho visto artisti famosi partecipare e non battere un ciglio quando dovevano produrre un’opera con 300 euro e vivere in un appartamento condiviso con altri artisti, dormendo su un materasso a terra.
Professionista: il direttore dell’Institute for the Comparative Modernities della Cornell University, Salah M. Hassan, storico dell’arte africana, fondatore di NKA Journal for Contemporary African Art (cofondato con Okwui Enwezor), curatore del primo padiglione Africano alla 49. Biennale di Venezia (2001), Authentic / Ex-centric: Africa in and out of Africa, e direttore di mostre e pubblicazioni internazionali. In Italia sarebbe un barone assetato di sangue. E invece è un uomo che chiama i suoi studenti per consigliare letture o film da vedere; legge e corregge i loro paper; aiuta studiosi del sud del mondo a vincere borse di studio e accedere alle costose università degli States.
Cosa consigli ai colleghi in Italia?
In Italia ci sono molte persone preparate e vive, che non hanno nulla da invidiare ai loro colleghi all’estero, tranne forse delle istituzioni migliori, neutrali e non dipendenti da circoli politici. A chi sta in Italia, citerei i Public Enemy: “Don’t believe the hype”. Non crediate che all’estero la qualità sia migliore. Solo che le istituzioni investono più in cultura. Con più fondi, è più facile realizzare i propri progetti rimanendo indipendenti. All’estero manca il nostro provincialismo subalterno: pensiamo che fuori sia tutto meglio senza leggere la stampa straniera.“A me mi ha rovinato la guerra. Se non c’era la guerra, a quest’ora stavo a Londra”, diceva Ettore Petrolini (e devo la citazione al mio amico filmmaker Massimo Carboni). Importare “curatori internazionali” per far funzionare un museo come il Maxxi non è la formula. Tutti condividiamo il fastidio per la sudditanza, per la naïveté subalterna e soprattutto per la poca cura che abbiamo nel valorizzare le nostre risorse e nel fare rete.
Neve Mazzoleni
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #19
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