Prix de Rome: la Capitale d’Italia ombelico del mondo dell’arte?
In piena controtendenza rispetto alla crisi totale che la città sta vivendo, lo storico Prix de Rome annuncia il proprio rilancio. Semplice paradosso o inaspettato motore per la rinascita artistica della Capitale?
Antoine Watteau, François Boucher, Jean-Honoré Fragonard, Jean Auguste Dominique Ingres, Thomas Couture: in comune non hanno soltanto il fatto di essere tra i più noti (e bravi) pittori francesi fra Settecento e Ottocento, ma anche l’aver ottenuto nella loro carriera uno dei massimi riconoscimenti in campo artistico, il Prix de Rome. E altrettanto grandi sono gli artisti esclusi da questo prestigioso premio istituito nel 1666 (sotto re Luigi XIV), grazie al quale il vincitore aveva la possibilità di trascorrere un periodo di studio e ricerca a Roma, presso l’Accademia di Francia: un riconoscimento così ambito da generare vere e proprie ossessioni, se è vero che Jacques-Louis David tentò il suicidio dopo che la sua candidatura venne rifiutata ripetutamente, per poi essere accettata nel 1774.
Lo stesso Prix de Rome, nato oltre 350 anni fa, è oggi al centro di un’importante azione di rilancio, come dimostra l’incontro organizzato dal Royal Netherlands Institute, che lo scorso 16 dicembre ha riunito per l’intera giornata un vero e proprio parterre de rois, con la presenza di ambasciatori, direttori di accademie e istituti di cultura stranieri, curatori, artisti e architetti.
Curato dall’artista e ricercatrice olandese Krien Clevis, a dieci anni dall’istituzione da parte del Mondriaan Fund del Project Studio in Rome (una specie di riedizione del Prix), il convegno proponeva un punto della situazione sul Prix de Rome e, più in generale, sul ruolo che le istituzioni culturali straniere presenti sul territorio romano possono giocare. Certo, le regole sono cambiate rispetto a tre secoli e mezzo fa: nato per iniziativa francese, il premio è stato poi adottato da numerosi Paesi (Germania, Paesi Bassi, Gran Bretagna, Stati Uniti…), mentre la divisione in rigide categorie (pittura, scultura, architettura, musica) ha ceduto il passo a distinzioni più fluide e interdisciplinari; il richiamo della Città Eterna – con la possibilità di una permanenza di almeno tre mesi – rimane tuttavia immutato.
Ma qual è, oggi, il senso di un premio nato quando la teoria della gravitazione universale non era stata ancora messa a punto da Isaac Newton e il Papa regnava su Roma? Gli ospiti, raggruppati in tre sessioni, hanno provato a rispondere partendo dalla più ovvia delle considerazioni: Roma è una città unica e, ora come in passato, rimane un riferimento imprescindibile per “abbeverarsi” ai modelli culturali dell’età classica e del canone occidentale.
Questo, in sostanza, il commento dei primi relatori (Harald Hendrix, direttore del Royal Netherlands Institute, Renilde Steeghs, rappresentante del Ministero degli Affari Esteri olandese con delega alla cooperazione culturale internazionale, Mario Defacqz, in sostituzione dell’assessore alla Cultura del Comune di Roma Giovanna Marinelli, e Birgit Donker, direttrice del Mondriaan Fund); un avvio istituzionale che ha anticipato gli interventi di quattro direttori di accademie straniere a Roma (il francese Éric de Chassey, il tedesco Joachim Blüher, il britannico Cristopher Smith e la statunitense Kim Bowes), incentrati principalmente sul contributo storico di queste istituzioni e sul loro funzionamento, gettando tuttavia uno sguardo sul presente grazie alla partecipazione di borsisti attualmente in residenza nelle rispettive accademie (Raphaël Dallaporta, Oswald Egger, Florian Roithmayr), chiamati a offrire un “saggio” del proprio lavoro (immagini, video e letture), proponendo così un abbinamento originale e dinamico.
Sulla stessa scia la seconda sessione, con le lecture di Donna van Milligen Bielke e Falke Pisano, rispettivamente vincitrici del Prix de Rome per l’architettura e le arti visive nel 2014 e nel 2013, e Maria Barnas, residente a Roma nel 2009.
Il terzo e ultimo “tempo”, impostato come una conversazione a più voci, ha visto il coinvolgimento di quattro curatori, tutti ampiamente riconosciuti a livello internazionale e tutti legati a doppio filo all’Italia: Lorenzo Benedetti, direttore del centro De Appel di Amsterdam, Lorenzo Bruni, curatore della non profit Karst di Plymouth, Cecilia Canziani, co-direttrice della Nomas Foundation di Roma, e Adrienne Drake, direttrice della Fondazione Giuliani, sempre a Roma. Un dialogo serrato che, grazie anche alla moderazione della giornalista olandese Andrea Vreede – da vent’anni in Italia –, ha messo in evidenza risorse e limiti del sistema dell’arte romano e la sua relazione con lo straordinario patrimonio rappresentato dalle accademie straniere.
Migliori coordinamento e collaborazione tra le varie realtà (magari a partire da un semplice, elementare calendario condiviso delle iniziative…); maggiore apertura alla città da parte dei residenti (senza fermarsi soltanto alle “rovine” e alle immagini da cartolina offerte dal centro storico); sostegno a un ricambio generazionale che possa far fronte alla migrazione di alcuni curatori non più attivi a Roma, in grado di creare un ponte tra i residenti e la scena romana (evocati Francesco Stocchi, lo stesso Lorenzo Benedetti, ma anche il più giovane Luca Lo Pinto): sono questi i punti critici emersi dalla discussione, utile comunque a ribadire il potenziale espresso da Roma nella costituzione delle “radici del contemporaneo” (immancabile il riferimento a Contemporanea, la mostra allestita nel 1972 al neonato parcheggio di Villa Borghese) e la sua attrattiva per gli artisti stranieri. Che, oggi come ai tempi di David, subiscono il fascino di una città incapace di allinearsi alle altre grandi capitali del mondo; una città a volte ostile, in perenne bilico tra splendore e miseria e, forse per questo, impareggiabile fonte d’ispirazione per chi la incontra la prima volta.
Saverio Verini
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati