Come cera per le api. La scultura secondo Mattia Bosco
Pietra, legno, ceramica. Le tre anime della scultura raccontate dal punto di vista di Mattia Bosco, in procinto di inaugurare la sua personale al Museo Diocesano di Milano. Un dialogo con Anna Siccardi, che è come una introduzione alla sensibilità della mostra.
In questa tua mostra al Museo Diocesano di Milano hai deciso di esporre sculture in legno, pietra e ceramica. Sono opere che hai sviluppato in cicli di lavoro separati: tra le sculture in pietra e quelle in legno ci sono due anni di distanza, le ceramiche non le hai mai esposte, anche se addirittura precedenti o coltivate in parallelo. Come mai hai deciso di presentarle insieme?
Per la mostra al Museo Diocesano ho pensato di portare una selezione delle mie sculture in pietra, legno e ceramica proprio perché, indagando separatamente questi tradizionali materiali della scultura, ha cominciato a delinearsi un nucleo di risposte simili, che a sua volta rimandava a una domanda unica. Domanda che però non è separabile dalle risposte che ha prodotto. È come se in scultura la domanda coincidesse con la risposta, non c’è prima, vi resta impigliata, vi si annida. La risposta, intesa come quella conclusione di un processo che l’opera è, diventa immagine della domanda, il suo farsi vedere. La domanda si chiude per il fatto stesso che la risposta si apre.
Proprio questa è la cosa che mi affascina della scultura, che c’è identità tra l’abitante e la sua casa, l’abitante è la sua casa, la casa è l’abitante, senza possibilità di sfratto, perché voler distinguere l’opera dalla sua materia sarebbe come voler dissociare l’opera da se stessa.
Pietra, legno e ceramica non sono però solo materiali diversi, ma presuppongono anche approcci e metodi di lavoro differenti. Come pensi che queste differenze ti abbiano aiutato ad avvicinarti all’abitante/forma a cui poi hai dato vita nei tuoi lavori?
Quello che mi è accaduto nel passare da un materiale all’altro è qualcosa di più del passaggio da un approccio e un metodo di lavoro a un altro. Non è una questione tecnica. È qualcosa di più simile a una migrazione. Le rondini non migrano spinte dalla curiosità. Non si abbandona un luogo senza motivo. Non si passa da un materiale a un altro per turismo, ma per fame.
Restando all’interno di questa tua metafora di luoghi, la sensazione che ho guardando le tue ultime sculture in legno è che siano una sorta di colonia dei lavori in pietra. È come se tu avessi esportato nel legno ciò che avevi delineato nelle sculture di marmo, sottomettendo il legno alla legislazione propria di un altro materiale. È un pensiero che condividi?
Mi vien da dire che la pietra ci ha provato, ma il legno ha opposto una strenua resistenza! E poi i ruoli si sono ribaltati: la pietra voleva insegnare al legno quello che in realtà aveva appreso dal legno, solo che se ne era dimenticata. Chi ha imparato per primo tra i due la verticalità? Chi ha insegnato alla pietra a farsi pilastro se non il legno, gli alberi? Poi la pietra gli ha ricordato che tutti loro, gli alberi, abitano su una spolverata di terra che ricopre il nucleo duro del mondo. Nessun materiale ha l’ultima parola, e quello che si apprende da una parte può avere effetti imprevisti altrove. Si parte da uno spunto, senza rimanervi ancorati, quasi dimenticandosi da dove si è partiti, perché lo spunto, prendendo forma, muta anche il senso di questo percorso, aprendo altre vie.
Comunque tra la mia ricerca in pietra e quella in legno, io sento una consanguineità, un’alleanza più che una sottomissione dell’uno ai valori dell’altro. Il pensiero che possano portarsi reciproco vantaggio illuminandosi a vicenda è quello che mi spinge a presentarli all’interno di una stessa mostra, dopo averli proposti separatamente. Quanto all’aver esportato un’idea dal marmo al legno, se questo è in qualche modo avvenuto è perché vi era nel lavoro in pietra un’eccedenza di senso, che ha generato un’attesa che il legno ha colmato. In modo parziale e totale, come ogni risposta. La fame, il vuoto che ogni riempimento porta con sé, come un presagio, con la sua inquietudine insopprimibile rimescola di necessità le carte di un gioco senza fine.
Vorrei chiederti adesso di entrare nel merito del titolo che hai dato alla recente mostra in cui ha presentato le sculture in legno: Fiori violenti. Fototropismo verso la forma.
La scultura segue la forma come le piante seguono la luce. Le piante captano la luce, non la creano: la riconoscono e se ne nutrono. E come le piante non inventano la luce, lo scultore non inventa la forma, la trova nelle cose e ne continua il processo di formazione. L’albero è innalzamento allo stato solido e per questo diventa pilastro per l’uomo, elemento primario di ogni architettura. L’immaginazione ci spinge a realizzare una possibilità perché la pone come reale, presente. Quando la immagini c’è già, il cantiere è già aperto, fatto di cose che cominciano a sobbollire, a diventare i preziosi eredi di un mondo nuovo. Il gesto diventa responsabile e l’attenzione iscrive sotto la sua tutela lo spazio che circonda l’opera che cresce.
Fin qui hai parlato del legno e della pietra, lasciando in ombra la presenza del tuo lavoro in ceramica. Eppure costituisce il terzo elemento della mostra, oltre che un aspetto non marginale nella tua produzione, anche se non gli hai mai concesso di lasciare il tuo studio…
L’argilla con la sua seducente plasticità ti dà l’ebbrezza di una libertà sconfinata, comunque tu disponga le vele hai sempre il vento in poppa e vai, vai che è un piacere. E ti perdi. Ti porta dove vuole lei, è lei che conduce il gioco, che si prende le tue mani. Appena la tocchi lei ti cede il posto, e tu pensi di essere tu e invece è ancora lei. La terra è accogliente ma il rischio è di stabilirsi in un luogo che non potrà mai essere casa.
La pietra al contrario è respingente, chiusa e inospitale al primo sguardo, ma è proprio questa resistenza che attrae al suo interno con una lentezza che è feconda e che limitando la dispersione favorisce la crescita di un’idea fino al suo prendere corpo e diventare opera.
C’è una vocazione formale nella pietra che è visibile fin dalla superficie e che viene attratta con forza dall’intenzionalità formante dello scultore non appena il magnete venga girato dal lato giusto: la forza respingente diventa attrattiva e la materia e la forma si agganciano indissolubilmente.
Forte dell’incontro con la pietra ho tentato un nuovo riavvicinamento all’argilla, cercando di trovarne i limiti piuttosto che favorendo la sua plasticità sconfinata. Ho preso le distanze necessarie per non subire le sue suggestioni: ho filtrato il più possibile la gestualità della modellazione, sostituendo il lavoro per contatto con un operare mediato, ho disidratato la terra purgandone la sua molle duttilità, ho sospeso la sua massa impedendole di cedere e far ritorno a se stessa. Per questo ho pensato spesso che le mie ceramiche fossero una sorta di esilio della terra, una sorta di prigionia nell’aria. Ma, come diceva Sottsass, “le ceramiche sopportano tutto”.
In effetti nelle sculture in pietra e in legno, il tuo modo di operare appare sempre come un intervento, come un dialogo con la natura dei materiali che scegli. Nelle ceramiche sembra invece che tu voglia provocare l’argilla facendo valere le tue esigenze formali contro la sua natura e non assecondandola o collaborando come appare chiaro negli altri lavori. Mi chiedo se questo contrastare il materiale, al di là di tutto quello che hai detto, non testimoni il fatto che questa natura tu non l’abbia ancora riconosciuta o non la voglia addirittura riconoscere.
Non ho una risposta chiara a riguardo. Penso di aver comunque prolungato una possibilità del materiale dato che l’argilla mi ha seguito in questa fragile ascesa di linee aeree. Le stesse forme in un altro materiale non le avrei trovate attraenti nello stesso modo. Non si sarebbero configurate nello stesso modo. Proprio la qualità malsicura dell’argilla per questo tipo di forme leggere è ciò che le ha rese fresche. Proprio la qualità calda della terracotta è ciò che ha dato sapore a geometrie altrimenti algide. Portata così al limite di rottura, l’argilla diventa un materiale non più cedevole ma che oppone resistenza. Questa resistenza è quello che finalmente mi interessava trovare nell’argilla.
Forse appartiene proprio alla sua natura questo essere inafferrabile. Il fuoco le impone però un’ultima metamorfosi, da immortale diventa mortale, compiuta, irreversibile.
Vuoi dire che il fuoco, la cottura, è una sorta di morte per l’argilla?
In un certo senso sì, l’argilla muore e rinasce nel fuoco. La cottura è una sorta di morte iniziatica, l’argilla muore all’infinita disponibilità alla trasformazione, e rinasce nella finitezza di una forma, tornando in qualche modo a essere pietra, l’unica pietra non geologica ma antropologica. Non potrà più sciogliere il nodo di questa decisione tornando fango del Po o nel limo del Nilo.
La materia duttile e molle alla fine del processo viene dunque purgata della sua instabilità e fermata nel suo movimento. La terra viene cotta, la cera si perde nella fusione metallica… Eppure Come cera per le api è il titolo che hai dato a questa mostra al Museo Diocesano. Perché?
Proprio recentemente ragionando con mia madre sulle qualità dei materiali molli, le ho chiesto: come ha fatto Medardo Rosso a raggiungere una tale intimità con un materiale così infido come la cera? E lei mi ha detto: “È come se Medardo Rosso vedesse la cera con gli occhi delle api”. Non importa quindi su cosa si stia lavorando, perché la materia per lo scultore è come cera per le api. Qualunque essa sia. È qualcosa d’insostituibile. Questa forma accade solo in questa materia.
Anna Siccardi
La conversazione è tratta dal catalogo pubblicato da Gli Ori
Milano // fino al 30 agosto 2015
inaugurazione 8 giugno ore 19
Mattia Bosco – Come cera per le api
Catalogo Gli Ori
MUSEO DIOCESANO
Corso di Porta Ticinese 95
02 89420019
[email protected]
www.museodiocesano.it
MORE INFO:
http://www.artribune.com/dettaglio/evento/45573/mattia-bosco-come-cera-per-le-api/
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