Nomadic Arts Festival. Il senso di vivere l’arte
Il Nomadic Arts Festival 2015 ha fatto tappa anche a Roma, nel quartiere San Lorenzo, prima di giungere a Bratislava. Artisti di ogni nazionalità assoldati in loco hanno innescato una comunità urbana temporanea dal 3 al 5 luglio. Artribune ne ha parlato con il suo ideatore, Mads Floor Andersen.
NATURA SPAZZATURA
Di volta in volta la natura nomade del Nomadic Arts Festival si traduce concettualmente e strutturalmente in relazione al contesto culturale, sociale ed ecologico che dà forma alla tematica da sviluppare negli interventi performativi. Dopo lo scenario di una fattoria nelle campagne della Polonia, l’evento Stroking the Pavement ha integrato la poetica della metropoli.
“Ogni cosa è natura, tanto gli alberi e l’erba quanto la polvere, la plastica e i rifiuti. Tutto concorre a un contesto ecologico. E il Nomadic Arts Festival si differenzia dai festival ecologici anche perché non si svolge solo in ambienti naturali: sarebbe un limite! Poi personalmente sono incuriosito dall’immondizia, dalla sporcizia. La scelta è quindi ricaduta su San Lorenzo, poiché mi faccio sempre guidare da una prospettiva soggettiva: è il quartiere romano che conosco meglio, con cui ho empatia, di cui amo la spontaneità e i caotici graffiti”, ha precisato Mads Floor Andersen.
LA GALLERIA SCENDE IN STRADA
La Galleria 291 Est si è così trasformata nell’accampamento base di una stratificazione di testimonianze e passaggi artistici, attuando una sovversione interna, inerente allo stesso concetto di Galleria, che da spazio espositivo di opere è divenuta un contenitore di artisti e persone.
Per strada il pathos ha impregnato la performance dell’artista polacca Ola Koziol che, vestita di bianco e con un velo sul volto, simbolo di purezza, ha guidato un lento corteo nella reinterpretazione di un rito di purificazione, mentre in piazza campeggiava la grande cianotipia del F.R.A. – Fronte di Resistenza Analogica, realizzata sfruttando i rifiuti e la luce solare. Mads Floor Andersen con la sua performance ha posto l’accento sulla società contemporanea: costruendo un fortino di rifiuti raccolti nel quartiere, ha palesato un senso di possesso e di conservazione, una progressiva violenza contro l’altro/pubblico, fino alla sua distruzione.
CIÒ CHE (NON) RESTA L’ARTE
Lo stesso Andersen ci ha parlato più approfonditamente della sua idea: “Ho notato un isolamento tra i gruppi di artisti, più che altrove. Ciò rispecchia anche il pubblico italiano, con le sue stratificazioni sociali e culturali, con i suoi limiti nell’approccio al non ordinario, al diverso. C’è un forte retaggio di ostacolo al cambiamento. In ciò ogni reazione e coinvolgimento al Nomadic Arts Festival è stata una piccola rivoluzione. Per lo più lo spettatore è stato chiamato a essere coinvolto emotivamente, personalmente, dalle nostre performance, sperando che ciò si traduca in una riflessione sulla tematica. Gli stessi interventi artistici, non statici e non catalizzatori, superano il concetto e la questione del pubblico. Nell’idea iniziale c’è anche una critica di settore: nel pensiero sociale c’è una tendenza alla conservazione che lo stesso presupposto del Nomadic Arts Festival sconvolge. Infatti si sviluppa interamente sull’arte performativa: quindi rimangono poche tracce artistiche, c’è solo l’evento, un qualcosa che accade qui e ora. Io credo che la vera arte sia legata a un momento circoscritto, nel tempo e nello spazio, mentre l’arte è tradizionalmente legata all’oggetto, anche per questioni di mercato. Sostanzialmente è autoreferenziale”.
Il Nomadic Arts Festival non è stato niente di tutto ciò: nelle tre giornate romane ha prevalso un’atmosfera ludica, di condivisione artistica ed esistenziale, di integrazione, di fusione tra tribù sociali.
Rossella Della Vecchia
http://nomadicartsfestival.com/
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati