Osservatorio curatori. Giangavino Pazzola
Prosegue la nostra indagine sulle nuove leve della curatela italiana. Questa volta andiamo a Torino, ma anche in Sardegna, dove opera Giangavino Pazzola. Che fra l’altro è anche una firma di questo giornale.
Caro MEG,
Non appena ho ricevuto l’invito a raccontarmi in queste righe, la prima sensazione che ho provato è stata quella di un leggero fastidio. Niente contro la redazione, sia chiaro, solo una sorta di piccolo conflitto interiore. È probabile che il sottoscritto sia poco incline alle categorizzazioni – non penso di essere un “talento”, per esempio – come è verosimile provare un certo imbarazzo nell’autodefinirsi. Ironia vuole che, infatti, il tentativo della costruzione di un’identità da raccontare implichi la decostruzione di altri aspetti della nostra persona che – strumentalmente – non vengono citati. Se poi dobbiamo allargare questo ragionamento alla figura del curatore e al senso della pratica curatoriale, questo esercizio diventa ancora più arduo. La prima volta che sentii parlare di questi argomenti avevo dieci anni in meno e i relatori della conferenza erano Carlos Basualdo, Angela Vettese, Okwui Enwezor, Massimiliano Gioni e altri, figure molto più autorevoli di me che, in un modo o nell’altro, si interrogavano sul tema.
Personalmente ritengo che, per poter parlare di curatela, si debba partire dalle esperienze dei luoghi e dagli esercizi che ogni giorno compiamo come individui inseriti in una data comunità (quella artistica). Il processo di formazione critica di una persona nella contemporaneità deriva più dal vissuto, dalla dimensione esperienziale sperimentata in quanto evento visivo (quindi cognitivo) che dall’eredità del passato o dagli immaginari tecnologici.
In questo senso cerco di praticare la contemporaneità attraverso una serie di approcci che considerano lo scambio con l’altro e con i contesti ambientali, cerco di trovare in queste relazioni degli spunti per comprendere e interpretare tale complessità culturale. Conversazioni scritte e orali, registrazioni, interviste scritte, corrispondenze, momenti pubblici di confronto sono i metodi che più utilizzo per indagare il lavoro degli artisti. Non ho scoperto alcuna metodologia, ma compiere un percorso di questo tipo sembra portarmi a filtrare i temi e ad allontanare la sovrapproduzione (in un momento particolare come quello attuale, economico e di contenuto).
Ho una formazione accademica trasversale nell’ambito della cultura e della comunicazione contemporanea, arricchita da interessi diversi che derivano da curiosità, gap informativo, incoerenze attribuite (a torto o a ragione) alla società adulta e ai valori conclamati. Sono convinto che sia necessario lavorare con gli artisti (o con fonti primarie), per chi si definisce curatore, perché è un modo valido (se non l’unico) per accedere all’opera attraverso un’immissione diretta in essa; atteggiamento che mi porta raramente all’organizzazione di mostre collettive ma ad approfondire una ricerca per volta.
Al momento sono impegnato in un dottorato di ricerca in Urban e Cultural Studies al Politecnico e Università di Torino, nell’ambito del quale cerco di studiare le dinamiche di concentrazione degli artisti nei vari contesti, le pratiche artistiche e l’utilizzo di materiali in ambito non istituzionale (che poi ha un travaso nella sfera mainstream). A questo lavoro affianco vari progetti, esperienze autoriali (proprio a maggio ho presentato una pubblicazione scritta insieme a Enrico Bertacchini sui centri indipendenti di produzione culturale), aspetti di mediazione culturale e tematizzazioni varie, oltre a collaborazioni con riviste, che raccontano di circostanze tendenzialmente articolate fra Torino e la Sardegna.
a cura di Marco Enrico Giacomelli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #25
Abbonati ad Artribune Magazine
Acquista la tua inserzione sul prossimo Artribune
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati