BoCS Art Cosenza. Il tesoro di Alarico secondo Mariagrazia Pontorno
Il più grande tesoro dell’antichità è sepolto a pochi passi dalla residenza d’artista BoCS Art, a Cosenza. Almeno così racconta la leggenda. Mariagrazia Pontormo, fra le artiste invitate per questa seconda edizione, ha incentrato il suo progetto proprio sul tesoro del re Alarico.
Mariagrazia Pontorno (Catania, 1978) è una delle protagoniste della seconda edizione della residenza cosentina BoCS Art. L’artista, particolarmente sensibile al rapporto tra arte, natura e tecnologia, ha realizzato un lavoro legato alla serie Layer, collage digitali che dai livelli di un software di grafica sono trasferiti su un nuovo supporto.
L’opera fa riferimento al leggendario tesoro del re Alarico, il più grande tesoro della storia dell’umanità; si racconta che tra gli oggetti del bottino ci sarebbe la famosa Menorah, il candelabro a sette bracci simbolo della religione ebraica, 70 chili d’oro e d’argento trafugati dall’imperatore Tito nel 70 d.C. e finiti in mano di Alarico durante il sacco di Roma. Questa enorme ricchezza, secondo la leggenda, sarebbe sepolta con Alarico, re dei Goti, sul letto dei fiumi Busento e Crati, le cui acque scorrono proprio a fianco dei box che accolgono gli artisti in residenza.
Come nei precedenti lavori della Pontorno, anche questo progetto rimanda alla stratificazione metaforica di eventi storici e diviene pretesto per collegare tradizione e contemporaneità, natura e cultura analogica/digitale, reazioni reali e momenti di emozione interiore.
Come nasce l’idea di questo progetto?
I miei lavori sono sempre influenzati dal luogo e dal contesto in cui sono pensati e realizzati. Che poi confluiscono in un impianto formale e in un linguaggio che è l’unica cosa che porto con me; il resto arriva sempre da fuori. È stato il tempo a disposizione, meno di un mese, a suggerirmi la tecnica da scegliere: avrei fatto un Layer, cioè un collage digitale ma che ritorna alla dimensione analogica attraverso la stampa su acetato. Tanti fogli trasparenti sovrapposti, come i livelli di un software di grafica e come le stratificazioni della storia. L’ultimo strato è sempre costituito da radici in wireframe, le cui ramificazioni chiudono i livelli. Il collage, per via della sua delicatezza, viene infine montato all’interno di una teca trasparente disegnata appositamente. Il titolo coincide con la progressione numerica di produzione. L’opera per BoCS è il Layer #21.
L’opera è un chiaro rimando a un fatto leggendario di cui si discute moltissimo a Cosenza: il tesoro di Alarico. Come mai questa scelta e in che modo hai svolto la tua ricerca?
In questo caso il “pretesto” è stato un giro turistico di Cosenza organizzato per gli artisti del BoCS. Quando il pulmino è passato vicino al fiume Busento, la guida ha ricordato la vicenda di Alarico e del suo tesoro e mi è sembrato un simbolo potente da cui partire, come se il mantello del re visigoto potesse coprire tutti i secoli trascorsi da quell’episodio leggendario. Nei giorni successivi ho guardato con attenzione il modo in cui la tradizione iconografica ci ha restituito la sepoltura di Alarico: incisioni e dipinti che a loro volta si rifanno alle cronache di Cassiodoro, il quale nella sua Historia Gothica narra di come il più grande tesoro della storia, frutto del sacco di Roma (410 d.C.), sia stato sepolto nel letto del fiume Busento, insieme ad Alarico, morto improvvisamente mentre era di passaggio a Cosenza.
Per l’occasione il corso del fiume fu deviato e gli schiavi, testimoni dell’ubicazione, furono uccisi. La Tomba nel Busento, la celebre lirica di Von Platen, tradotta da Carducci e imparata a memoria dai nostri papà, racconta con solennità l’episodio. In più, sempre in Rete, sono venuta a conoscenza del piano del Comune di Cosenza di rimettersi sulle tracce del tesoro promuovendo una campagna di scavi. Negli stessi giorni dei bambini giocavano proprio intorno ai BoCS a cercare il tesoro di Alarico, segno che si tratta di un patrimonio dell’immaginario del luogo. Circa una settimana dopo, su Rai 2 è andato in onda un servizio di Voyager dedicato al tesoro. Ma soprattutto, già prima della residenza ascoltavo molto spesso Sul Fiume di Max Gazzè.
Insomma, sincretismi misti a psicologia indotta e a un po’ di Truman Show, tipici della nostra epoca.
Nel tuo lavoro parli di stratificazione naturale tra realtà storica e finzione, che avvolge ogni aspetto della vita e dell’oggettività. Quali sono le connessioni, le chiavi di dialogo con la contemporaneità e le nuove tecnologie?
Le nuove tecnologie mi interessano per il discorso inclusivo rispetto alle nostre esistenze, sono parte essenziale della contemporaneità. Per questo non amo la distinzione che spesso si usa fare tra linguaggi artistici, quella sì mi pare artificiale. La storia, la narrazione, la stratificazione sono d’altra parte gli elementi che più ci definiscono come individui, imprescindibili nella costruzione di un processo civile. Quindi diciamo che mi limito a testimoniare ciò che vedo, col filtro del mio sguardo, che è focalizzato principalmente sul confine tra realtà e finzione. Che forse non è mai stato così labile, o meglio così poco esplicito, come oggi. Anche per via della massiccia produzione di immagini, e del poco tempo che abbiamo per farle sedimentare dentro di noi.
Per esempio, proprio durante la residenza, mentre lavoravo al collage, ho seguito la diretta del tentativo (?) di golpe in Turchia. Surreale, perché non c’era molta differenza con le dinamiche di una finale di coppa del mondo: c’era persino Erdogan che si collegava via Facetime con una giornalista della CNN, che mentre parlava con il leader turco ha ricevuto la chiamata di un’amica, a cui ha mandato l’occupato in mondovisione.
Hai utilizzalo Whatsapp e Google Maps, con i suoi riferimenti di geolocalizzazione, come metodo per coinvolgere nel tuo lavoro gli altri artisti in residenza. Puoi spiegarci in che modo hanno interagito e qual è stato lo scopo?
La caccia al tesoro attinge a meccanismi archetipici, è un gioco ma anche un percorso di scoperta da cui tutti siamo attratti. Così ho pensato di rendere partecipi gli altri artisti, chiedendo loro di ipotizzare il luogo in cui potesse trovarsi il tesoro di Alarico. Per un attimo ho pensato di comprare un piccone, ma ho subito accantonato l’idea, viste le temperature roventi ma anche la portata immaginifica e mitica che già l’idea di tesoro porta con sé.
Capitava spesso tra artisti di inviarci, per vari motivi, le posizioni via Whatsapp. Quindi mi è parso uno strumento agile e molto adatto per raccontare quei giorni tra di noi e al contempo aderente alla mia poetica. Google Maps è la stella polare della nostra epoca, e i riferimenti di geolocalizzazione, oltre che utili, sono belli.
E poi è accaduta una cosa a mio avviso bellissima: molti degli artisti mi hanno inviato la posizione dal luogo in cui stavano svolgendo la loro ricerca. E se pensiamo che le opere prodotte in residenza contribuiranno alla costituzione del futuro Museo di Arte Contemporanea di Cosenza, allora quello è il vero tesoro di Alarico. Lo abbiamo trovato!
Il pubblico di Cosenza come ha accolto questo tuo progetto?
Uno dei punti su cui il progetto BoCS deve lavorare è proprio il contatto con la realtà cosentina. C’è forse troppa distanza tra la città e quella degli artisti coinvolti, nonostante la maggioranza dei lavori pensati dai miei colleghi sia orientato al coinvolgimento del territorio. Probabilmente quella delle residenze è una presenza ancora giovane, che non ha avuto il tempo di attecchire nell’orizzonte della città. È come se il contrasto stilistico sancito dall’architettura si riflettesse sul resto.
Però c’è la curiosità di capire cosa sta avvenendo, oltre il fiume, in quegli edifici di legno dalle gigantesche vetrate. Trovo interessante che nella stessa modalità costruttiva dei BoCS sia insita la trasparenza, dunque l’invito a guardare e a raccordarsi con il lavoro svolto su piano strada dagli artisti.
Questa residenza cosa offre di particolare rispetto ad altre tue esperienze simili?
Nei BoCS si ricreano tutte le dinamiche dei gruppi: in un tempo breve, in effetti, ma così dilatato e intenso da simulare la vita in ogni suo aspetto. Il fatto che siano così nuovi e spartani al loro interno è funzionale alla possibilità di mostrare con limpidezza il lavoro degli artisti. È emozionante, man mano che le settimane passano, osservarne l’evoluzione attraverso le vetrate, e riconoscere nelle opere che prendono forma le cose di cui si è parlato magari durante i pranzi o le passeggiate.
Seppure in tempi record, Alberto Dambruoso è riuscito a mettere in piedi un progetto di qualità grazie alla rete di relazioni maturata con l’esperienza dei Martedì Critici. E questo è significativo delle enormi potenzialità della residenza, e di quante risorse si possano ancora attivare.
Progetti futuri?
Un documentario dedicato ad Aeham Ahmad, il leggendario pianista di Yarmouk. Una traversata dell’oceano in nave cargo con destinazione Brasile, a cavallo tra 2016 e 2017, per completare Tutto ciò che so, progetto curato da Silvana Vassallo. E poi un’idea che sta prendendo forma proprio in questi giorni durante un viaggio a Lesbo con due colleghe, alla luce della situazione di emergenza umanitaria in cui versa l’isola.
In tutti e tre i casi si tratta di opere-ponte fra tradizione e contemporaneità, ma i cui aspetti produttivi e fruitivi si aprono a contesti e circuiti più ampi, in linea con la complessità del presente. Credo sia un’esigenza che accomuna il mio percorso a quello di tanti artisti della mia generazione.
Giovanni Viceconte
https://imartedicritici.com/residenzeartistiche/
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