Aspettando la Biennale di Yinchuan. Il racconto di Cristiana de Marchi (III)
Terzo e ultimo appuntamento con il “diario di viaggio” dell’artista italiana presente alla Biennale di Yinchuan. A poche ore dall’opening, qualche riflessione su temi, artisti e modalità di una rassegna destinata a lasciare il segno.
LA BIENNALE, IL MUSEO
Sera prima dell’inaugurazione: preparativi febbrili, parecchi gli artisti che stanno ancora lavorando alle rispettive installazioni, molte delle quali sono complesse, stratificate o risultanti da un’agglomerazione di oggetti e singole entità.
Il MoCA Yinchuan non è uno spazio facile, rappresenta piuttosto una sfida per il curatore, data l’irregolarità degli ambienti, i volumi articolati, le rotondità delle pareti. L’architettura si impone, in una sfida spesso reiterata tra il formalismo strutturale e lo scopo per il quale i volumi sono stati concepiti. In questo Bose Krishanamachari ha già sicuramente vinto la sua prima battaglia, avendo ridisegnato gli spazi che potevano essere tracciati secondo logiche e percorsi espositivi innovativi, o comunque alternativi rispetto a quelli preventivamente considerati, ma anche avendo creato risonanze fra i volumi disponibili (laddove inalterabili) e i lavori selezionati.
Una parte considerevole di opere è site specific e commissionata per la biennale, a creare un’impronta e a stabilire un orientamento che possa definirsi come una consuetudine. Il museo ha infatti aperto da poco più di un anno e il team museale è giovanissimo: molti responsabili sono stati arruolati a Taiwan, vista la penuria di specialisti e professionisti locali, essendo comunque Yinchuan una provincia a oggi culturalmente ininfluente nel panorama dell’arte contemporanea.
IL CONCEPT
La partenza è di quelle in grande stile: un curatore acclamato e intenzionalmente individuato nel circuito delle biennali “periferiche”, giovani e politicamente tese a ridisegnare la distribuzione del credito riconosciuto ad aree finora marginali della produzione artistica mondiale; una selezione di artisti che in parte riconferma talenti emergenti sulla scena internazionale (fra i quali, Abigail Reynolds, Sudershan Shetty e Mohammed Kazem, tutti promossi dall’industria automobilistica di lusso nell’annata corrente) affiancandoli a stelle mondiali dell’arte contemporanea (Yoko Ono, Anish Kapoor, l’inammissibile Ai Weiwei) e nuovi talenti (Ammar Al Attar, Benita Perciyal, oltre a chi scrive).
Molte le installazioni all’aperto, in un uso degli esterni integrato, dove l’interazione con l’ambiente si fa necessaria, in considerazione di un concept curatoriale che lascia poche speranze quanto alle possibilità di redenzione della specie umana.
OTTIMISMO E RESILIENZA
Eppure, proprio le opere open-air sembrano offrire un afflato di ottimismo: le sculture di Valsan Koorma Kolleri, splendidamente posizionate all’intersezione fra interno ed esterno, creano un contesto protetto, adattabile, interpretabile in cui la simbiosi con la natura si declina in molteplici forme e organismi giganteggianti; l’intervento di Mohammed Kazem, la cui poesia risiede tanto nell’inattuabilità del gesto, nella materializzazione di un’impossibilità, quanto nella cura quasi paterna con cui tale immaterialità si traduce in realtà; l’installazione di Yoko Ono, caratterizzata da una rappresentazione letterale di continuità, da una speranza di rinnovamento, da una fiducia di trasformazione che quasi supera, e certo sorpassa, la stantia fede in una vita ultramondana; la monumentalità silente di Mary Ellen Carroll, con i suoi stendardi a ricoprire l’intera facciata del museo, creando così un dialogo dai toni imprecisati con la tradizione locale, intrisa di elementi mongoli e in apparenza intenta a ridiscuterne i termini e i contorni, giocando con il tema della propaganda, qui quanto mai imperante. Eppure la natura vince, senza ombra di dubbio, sull’uomo e sulla sua azione/intervento: le installazioni ambientali spariscono, riassorbite dal contesto, dai toni cromatici del parco naturale in cui sono immerse, dalla materia che lo costituisce.
Il tema dei confini, della limitrofia, della transizione fra spazi e tempi consequenziali è al centro degli interessi curatoriali, che peraltro si relazionano ugualmente con una certa poesia della resistenza, una perseveranza e resilienza che parecchi degli artisti partecipanti hanno incarnato come stile di vita (Lala Rukh, Hassan Sharif, la sottoscritta).
TEMPI SERRATI
Il gran giorno è arrivato: ieri sera le assistenti sono passate a lasciarci la borsa promozionale, con il programma della giornata e la maglietta sponsorizzata. Scherzando, ho chiesto se dovessi indossarla per l’inaugurazione: dopo un attimo di imbarazzo, l’ironia della domanda è stemperata in una seriosa affermazione di indipendenza. Fortunatamente, non dovrò rinunciare al mio amato nero! Ma il programma è scandito con ritmi irreggimentati e segna i minuti delle varie presentazioni, tour guidati e discorsi ufficiali: la curiosità a questo punto non va tanto alle parole che saranno pronunciate quanto alla effettiva possibilità di mantenersi fedeli a un calendario serratissimo nei tempi. Solo per dare un’idea, lo slot fissato per i fotografi sulla carta va dalle 15:22 alle 15:52.
Cristiana de Marchi
Yinchuan // dal 9 settembre al 18 dicembre 2016
Yinchuan Biennale – For an Image, Faster Than Light
a cura di Bose Krishnamachari
MOCA
No.12, HeLe Road
Xingqing District
+86 (0)951 8426106
www.moca-yinchuan.com
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