Dall’Archivio Viafarini. Intervista con Mattia Agnelli
Nuovo appuntamento con le conversazioni tra Progetto /77 e alcuni degli artisti incontrati nell’ambito del progetto "Portfolio Review Re-enactment", in collaborazione con Viafarini. È la volta di Mattia Agnelli, che racconta l’opera “Can't wait to finish my shift at Walmart and see him tonight”.
Dopo Mati Jhurry,Isabella Benshimol, Giada Carnevale, Marina Cavadini, Aldo Lurgo e Daniele Pulze, tocca a Mattia Agnelli (Pavia, 1991) descrivere il proprio lavoro. Le sue opere hanno un’impronta estetica molto riconoscibile: patinate, attraenti e talvolta quasi rassicuranti. Sono oggetti che creano l’illusione di poter essere compresi al primo sguardo, ma la scelta cosciente dei materiali e della lavorazione, la freddezza del lavoro ben eseguito, creano una narrativa amara e cinica. La sua ricerca racconta il fascino della periferia americana che fa la spesa al discount, si veste da thrift shop e guarda i quiz alla TV.
Come quando eravamo bambini negli Anni Novanta, fantastichiamo sull’American dream, ma ora ci interessa il lato più fallimentare, disilluso e sfaccettato.
La tua opera Can’t wait to finish my shift at Walmart and see him tonight è una sedia a sdraio sulla quale è stampato il nome dell’alter ego americano di Gerry Scotti: Alex Trebek. La prima volta che ci hai mostrato questo lavoro, ci hai raccontato tu stesso chi è il signor Trebek, ma hai anche puntualizzato che consideri googlare il nome parte della dinamica fruitiva di questo lavoro. Ogni elemento delle tue opere è calibrato per guidare lo spettatore attraverso la tua narrazione. Quale storia racconta quest’opera?
Vorrei partire dalla situazione di alter ego del nostro conduttore. Chi svolge quel ruolo negli Stati Uniti d’America è automaticamente una celebrità all’interno dello star system e tende ad avere un peso considerevole nell’ambito della cultura televisiva e non. Il fatto che il fruitore, alla vista di un nome stampato su una sedia a sdraio, possa googlarlo, trovo che sia uno degli aspetti interessanti del lavoro, perché il nome non dice niente a nessuno e il fatto di aprire il motore di ricerca e ritrovarsi un personaggio di spicco dei quiz show d’America può già indirizzare il tutto in una direzione ben precisa, senza l’aggiunta di spiegazioni o altre interpretazioni, preferibilmente evitabili in quanto l’obiettivo è essere il più cinico possibile.
Da dove prende le mosse la tua opera?
Questo lavoro parte dall’estate scorsa quando, dopo aver passato una ventina di giorni in una zona rurale da duemila abitanti nell’Indiana ( dove sedie a sdraio da spiaggia stazionano nei front yard di diverse abitazioni, come se davanti ci fosse l’Atlantico ), mi accorsi che tra alcuni ragazzi del posto c’era questo rito di non perdersi nessuna puntata di Jeopardy!, come se si trattasse di una serie su Netflix, ed è maturato qualche mese fa dopo aver finito di leggere un racconto di David Foster Wallace, dove la figura caricaturale di Mr. Trebek fluttua nel testo come tiranno del nulla, capobanda di spacciati e rancorosi. È così da sempre e per sempre sarà così, non c’è consapevolezza nell’avere vent’anni o quarantacinque e fare il commesso da Walmart per tornare a casa alla sette di sera e guardare quel noto programma di quiz show mentre si mangia cibo in scatola. L’anestesia totale è ormai in circolo da chissà quanto tempo ed è di questo auto-martirio privo di coscienza che parla il lavoro.
Racconti dell’America del Midwest che sta all’ombra dei riflettori delle grandi questioni e delle grandi città. Nel tuo lavoro non c’è traccia di critica o di giudizio nei confronti delle tematiche trattate, piuttosto è evidente uno sguardo indagatore, affascinato. In quanto giovane artista europeo e italiano, come ti poni rispetto a tali argomenti?
Fare entrare nel proprio lavoro ciò che si ama e ciò che provoca una sorta di fascinazione credo sia la cosa più difficile per chi cerca di fare questo mestiere, perché vuol dire essere in contrasto con se stessi per tutto il tempo e aver un gran senso di selezione e obiettività. Il fatto di essere europeo mi permette di trattare una certa parte di Stati Uniti (quella, appunto, dei charity shop, dei grandi supermercati in centri piccolissimi, delle stazioni dei bus e delle case mobili fatiscenti) con una visione totalmente distaccata, come se sorvolassi con un oblò le zone interessate. L’essere “al di fuori”, sia geograficamente e sia politicamente, mi permette di rendere omaggio alla banalità di una nazione abitudinariamente celebre per l’eccezionalità.
In quale prospettiva vedi le questioni di cui ti occupi?
Queste, a mio modo di vedere, sono tutte condizioni irrisolvibili rispetto alle questioni razziali o alla libera vendita delle armi, che sono grandissimi problemi ma comunque potenzialmente trattabili. Ma tutte queste cose, insieme alle questioni di cui ho cercato di dare una forma nella prima domanda, non c’è proprio soluzione per il semplice fatto che rientrano nella normalità assoluta, tragica e soprattutto priva di coscienza, come ho già detto. Qualche giorno fa leggevo il saggio che precede Foglie d’erba di Walt Whitman, il quale, nel 1855, scrisse che: “Il genio degli Stati Uniti non si manifesta al meglio nei suoi governanti, né nei suoi ambasciatori o scrittori o università o chiese o salotti, e nemmeno nei suoi giornali o inventori… Ma sempre e soprattutto nella gente comune, che hanno l’aria di non essersi mai trovati al cospetto di superiori”. L’ultimo pezzo è di una verità glaciale, che ho provato direttamente sul posto; a oggi non saprei trovare parole migliori e siamo nel 2016. Avrei potuto rispondere solo con questo virgolettato a tutta l’intervista. È Whitman, non c’è proprio nulla da fare.
Sapresti indicarci un libro e un film che sono vicini al tuo sguardo e alla tua ricerca, o che, anche se solo in parte, raccontano di quell’America di cui tratti nel tuo lavoro?
Per quanto riguarda i libri, Ruggine Americana di Philipp Meyer. Tralasciando la narrazione principale, la cornice in cui si svolgono gli eventi rientra esattamente nella tragicità di cui ho parlato. E poi c’è Dieci Dicembre di George Saunders, che spiega al meglio l’alienazione odierna del cittadino medio statunitense e non, direi anche del mondo tutto: un capolavoro essenziale. Per quanto riguarda il cinema, il film documentario di Roberto Minervini, Louisiana (The Other Side), del 2015, è davvero un ritratto durissimo e forse un po’ troppo politico rispetto al mio lavoro, per questo indico It’s Impossible to Learn to Plow by Reading Books, del 1988, il primo lungometraggio di Richard Linklater dove le parole stanno quasi a zero, ma il cinismo delle immagini è abbastanza chiaro.
/77
www.viafarini.org
http://progetto77.tumblr.com/
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