Io sono futuro. Angelo Bellobono e i giovani terremotati
Un progetto dal carattere formativo e partecipativo, prima ancora che artistico. Un’idea nata nelle terre colpite dal terremoto e che ora approda, nella Giornata del Contemporaneo, in una galleria, la Emmeotto, a Roma, sotto forma di una mostra a sostegno delle persone che vivono il dramma del sisma.
Costruire, non solo ri-costruire: è questo il motto di Io sono futuro, progetto di Angelo Bellobono (Roma, 1964), da sempre interessato alla marginalità, alle zone di confine e alle possibilità relazionali ed estetico-visive che possono innescarsi dall’incontro tra artista e contesti specifici. Bellobono si immerge nei luoghi, si mette in ascolto delle comunità che li abitano: questa volta lo ha fatto ad Amatrice e nelle altre realtà colpite dal recente terremoto che ha devastato quella parte d’Italia. Ne è nato un progetto dall’alto valore formativo e umano, prima ancora che artistico, a dimostrazione che l’arte e la sua pratica possono incidere concretamente sulla vita quotidiana. Ne abbiamo parlato direttamente con l’autore.
Il progetto Atla(s)now ti ha già portato a lavorare in contesti specifici e a stretto contatto con comunità decisamente connotate. Da dove nasce il tuo interesse per questo tipo di pratiche, basate sul coinvolgimento attivo delle persone con le qualiti relazioni?
Atla(s)now è un’esperienza compiuta, che ha prodotto risultati reali nella vita di molte persone, così come Before me and after my time (con il coinvolgimento dei Nativi americani originari di Manhattan), o Terra di Sila bruciata in Calabria, e ancora altri progetti. Partirei però da quello che mi dissero i Lenape, i nativi di New York, le prime volte che li incontrai: “Angelo, tu cosa vuoi veramente e cosa cerchi? Noi non abbiamo bisogno dell’ennesimo artista che vuole diventare indiano per mezz’ora, farsi il selfie sociale ed esporlo chissà dove”. Ecco, spesso ci avviciniamo alle persone e ai luoghi portandoci dietro una storia già scritta nella nostra testa, che è quella che vogliamo sentirci raccontare, dando a tutto il resto poca attenzione. Storie, spesso, funzionali più a noi stessi che alle comunità, storie che ci descrivono, ma non raccontano. Non saprei dire da dove nasce questo interesse. Stando in costante stato di ascolto, anche non voluto, accade, non sempre per fortuna, che uomini e paesaggi mi rivelino un percorso da avviare. Sono quasi sempre i luoghi e le comunità a coinvolgermi, più che io a coinvolgere loro. All’inizio c’è sempre un territorio, un’atmosfera, un urlo, un canto, un richiamo, due occhi o un albero; quasi sempre della fatica, spesso condivisa. Poi, per ascoltare una storia non basta sentirla raccontare, bisogna alzare la saracinesca dell’ego per far entrare il racconto.
Questa volta, ad Amatrice, ti sei confrontato con una terra dilaniata, con ferite ancora fresche. Cosa ti ha spinto ad agire subito e chi ti ha supportato in quest’esperienza? Mi incuriosisce soprattutto capire com’è stato confrontarsi con una comunità e un luogo che stanno attraversando uno stato di emergenza e disagio fortissimi, aspetto che credo sia in linea con il tuo interesse per le zone e le aree di “confine”.
Amatrice è uno dei luoghi in cui ho iniziato a lavorare, ma ci sono anche Arquata, Accumoli, Acquasanta, dove ho incontrato sorprese bellissime. Il rischio di apparire propagandistico in tale contesto è alto, per questo l’energia da impiegare è immensa. Non dobbiamo permetterci di “parassitare” il disagio altrui per farne un balocco intellettualistico. Quasi mai mi interesso alle ferite, c’è già un’abbondante pornografia del dolore mediatica che se ne occupa; piuttosto, cerco di portare me stesso al di fuori della zona di comfort, osservo, ascolto, provo ad appartenere, per quanto possibile, a un luogo, per poter leggere gli strati di memoria e scoprirli delicatamente col presente. In più, qui, c’è da fare i conti con una terra che ha modificato se stessa, rimescolando la vita che le sta sopra. L’Appennino è per me importante, magico, ancestrale. È la colonna vertebrale del nostro paese e il connettore geologico con altri. Da tempo, avevo voglia di riavvicinarlo, provare a prendermi cura di alcune sue piccole meraviglie con i mezzi e le competenze che mi appartengono. Atla(s)now, era nato anche con la volontà di raccontare il Mediterraneo attraverso le sue montagne, e da un po’ gli Appennini mi chiamano con insistenza. La tragedia del sisma ha semplicemente aggiunto ulteriore senso e urgenza a quello che in me stava maturando troppo lentamente.
Quali passi credi vadano compiuti?
Ora più che mai è fondamentale attivare e rafforzare percorsi educativi, didattici e formativi, in grado di stimolare visioni, consapevolezza ed etica del rispetto, che possano rendere i luoghi culturalmente e socialmente stimolanti, belli e sicuri, e in grado di produrre una microeconomia sostenibile. Più che ri-costruire, cosa dovuta e speriamo scontata, qui si tratta anche di costruire, contro ogni abbandono e amnesia dei luoghi. Ogni nuovo progetto è per me come un grande dipinto da cui lasciarsi portare: quasi sempre inizio da solo, ne esploro il senso, le necessità, le modalità e la fattibilità, tenendo sempre nel dovuto conto la possibilità di non far nulla. Per far ciò occorre competenza, passione, rispetto, delicatezza e condivisione. Dal punto di vista del supporto logistico, Roberta Buldini, propietaria della Galleria Emmeotto di Roma, ha accolto con entusiasmo la mia proposta, offrendo il suo spazio e un supporto economico iniziale. Poi, come già accaduto in altre esperienze, ho invitato a collaborare altri artisti e professionisti della montagna, come Davide Dormino, Davide Sebastian, Francesco Cherri.
In una situazione drammatica, hai scelto di coinvolgere i bambini, probabilmente i più colpiti e traumatizzati dal terremoto. Che tipo di progetto hai proposto? E come è stato recepito da loro?
Un percorso ha sempre un punto di partenza, magari degli obiettivi, ma non sempre un punto di arrivo. Già il nome che ho voluto dare, Io sono futuro, lascia intendere che il futuro è di chi lo abiterà e deve essere costruito prima che accada. I bambini, sono quindi il futuro più lontano, ma ho molto lavorato anche con gli adolescenti e i ventenni. Anzi, proprio la fascia di età tra 13 e i 20 anni mi è sembrata la più abbandonata a se stessa. In tali contesti, intorno ai più piccoli c’è sempre più attenzione, e spesso ci si dimentica di coloro che bambini non sono più, ma hanno perso quei riferimenti caratteriali e culturali che spesso in un bambino devono ancora costruirsi. Io sono futuro, al di là di questa fase iniziale, dettata anche dalla necessità di supporto materiale e psicologico immediato, è per me il fisiologico prosieguo di Atla(s)now, un ponte che vuole poggiarsi sulle montagne che incorniciano il Mediterraneo, renderle cerniere.
Come hai agito, nel concreto?
Sono un pittore, ma anche un uomo di montagna e di sport, e in questo genere di interventi faccio sì che queste competenze e identità dialoghino tra loro, annullando autoreferenzialità specifiche e fondendo saperi diversi. Per questa fase iniziale ho immaginato tanti piccoli dipinti, come un puzzle da rimettere insieme, realizzati dagli studenti di Amatrice e Arquata di varie età, contenenti porzioni di quel territorio ferito, da esporre e vendere per finanziare attività a lungo termine. La specificità ongoing di tali progetti rivela poi traiettorie da seguire e sulle quali costruire. Dopo averne parlato insieme, con gli studenti siamo andati a raccogliere polvere e residui di macerie, usate come materia pittorica. Il grande entusiasmo di tutti, professori e preside compresi, ha poi fatto sì che tutto si realizzasse nel migliore dei modi.
Il progetto è nato nelle tende e nei container per poi approdare sulle pareti di una galleria. Cosa credi possa produrre questo “scarto”, soprattutto nei bambini coinvolti?
Il progetto è nato prima di tutto nella terra, nei borghi, nei boschi, nei pascoli, poi nelle tende. La piacevole responsabilità di produrre opere da esporre in una galleria, la cui vendita genera sostegno economico alla propria comunità, ha diffuso grande soddisfazione e gratificazione. Il 15 ottobre saranno esposti oltre 80 lavori di grande qualità, 80 messaggi dei quali siamo tutti orgogliosi. I ragazzi saranno coinvolti anche nella fase di allestimento. Inoltre, sono stati organizzati dei “pulmini” per portarli a Roma il giorno dell’inaugurazione. Uscire dalla scuola, vedere i loro quadri esposti in un “luogo deputato” e partecipare all’evento è per gli studenti estremamente importante dal punto di vista psicologico.
Naturalmente Io sono futuro va al di là della mostra: cosa pensi si porteranno dentro i partecipanti? E prevedi già degli sviluppi del progetto?
La continuità di un progetto e le ricadute sul territorio sono prerogative per me imprescindibili, altrimenti non mi permetterei di iniziare tali percorsi, che quando si intraprendono richiedono assunzione di grandi responsabilità. Non è necessario né obbligatorio che l’arte si occupi di temi sociali, ma quando si coinvolgono comunità non bastano interventi effimeri che diventano mostre a uso e consumo di pochi, e che nulla hanno a che fare con le comunità coinvolte. Tra le molte cose, nell’immediato, con le presidi e gli insegnanti stiamo preparando un calendario di laboratori da svolgere nel corso dell’anno scolastico, e che porteranno alla realizzazione di opere da installare nel territorio. A breve si svolgerà un trekking solidale con il supporto del collegio guide alpine delle Marche e dell’Abruzzo, e stiamo sviluppando un piano di sostegno, per permettere ad alcuni giovani di seguire i corsi di formazione per accompagnatori di mezza montagna.
Saverio Verini
Roma // fino al 29 ottobre 2016
Angelo Bellobono – Io sono futuro
EMMEOTTO
Via di Monte Giordano 36
06 68301127
[email protected]
www.emmeotto.net
MORE INFO:
http://www.artribune.com/dettaglio/evento/56769/io-sono-futuro/
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