L’uomo che viveva dentro a un faro. Isravele, eremita e artista irregolare a Pizzo Sella
Storie di artisti irregolari, di outsider, di creativi straordinari vissuti nell’ombra o lungo i margini della società. Storie tutte da raccontare, fatte di genialità, di solitudini e di intelligenze creative. Come questa. Siamo a Palermo, su quella montagna nota per lo scandalo di Pizzo Sella, tra mafia e abusivismo edilizio. Dove dentro a un vecchio faro vive uno strano personaggio…
QUELLA STRANA MONTAGNA, A PALERMO
Palermo è fatta così. Più o meno come la si racconta, nel valzer di verità e luoghi comuni. Il principio di contraddizione, anima della Sicilia tutta, qui si proietta in mille piani, radicalizzato. Tutto si confronta col suo doppio e vi convive, a partire dal conflitto mitico tra slancio vitale e ombra della morte, tra la stasi e l’energia che spinge, sotterranea.
E così succede, ad esempio, che nel mezzo di una radiosa riserva naturale, in quel di Capo Gallo – là dove la montagna separa i golfi di Sferracavallo e di Mondello – una città fantasma sorga, indisturbata, in tutto il suo squallore. È lo scempio di Pizzo Sella, un’area di quel meraviglioso promontorio, sacrificata quarant’anni fa da una speculazione edilizia scandalosa.
E sempre qui – dove mirti, ginestre, fichi d’india e papaveri gialli convivono con scheletri di cemento conficcati nella roccia – altre storie si intrecciano. Lo scenario è quello di una fiaba, in cui spuntano a sorpresa pagine di cronaca mafiosa; e in cui si innestano un po’ d’arte pubblica – vedi il progetto del collettivo Fare Ala, nel cuore del villaggio abusivo – e un po’ di Outsider Art. Altro capitolo, altre voci segrete della montagna.
LA STORIA DI NINO, CHE DIVENTÒ ISRAELE
Qui c’è un posto chiamato “Il Semaforo borbonico”. Si tratta di un faro della Marina militare, edificato nel XIX secolo in mezzo alla vegetazione e rimasto in disuso per decenni. Finché qualcuno non vi giunse e ne fece la sua dimora. E qui si apre tutta una storia di magia, di spiritualità, di poesia e amore del sacro. E di solitudine, soprattutto. Voluta, cercata.
Nino, classe 1950 – fisico asciutto, barba bianca e un italiano stentato, masticato, imbevuto di strascichi dialettali – di mestiere faceva il muratore. Nel quartiere Zen, dove viveva con moglie e figli, pare lo chiamassero “U Signuri”. Perché la faccenda della religione era, per Nino, una specie di fissazione. E lo fu sempre di più, nel tempo, fino a rapirgli l’anima e le giornate.
È nel lontano 1985 che arrivò la fatidica “chiamata”, l’illuminazione che spalancò un’altra via nella foschia del quotidiano. Scegliere di cambiare tutto, in questi casi, è conseguenza naturale. E Nino infine scelse, se ne andò, lasciò i suoi cari, i suoi luoghi, il suo lavoro, i suoi panni di manovale e di cittadino di periferia. Scelse un margine ancora più estremo, fatto di pace e di meditazione. E sulla via di Pizzo Sella trovò un giaciglio povero e monumentale. Un posto dimenticato dagli uomini, destinato a diventare tempio di Dio.
Dal 1997 Nino vive dentro al faro. Oggi per tutti è Israele, il nome della terra di Yahweh –mutato in “Isravele” nel 2013 – e di mestiere fa l’eremita. Giorno, notte, estate, inverno, la sua vita è tutta lì, senza comfort, sempre uguale. Una lunga preghiera solitaria, mettendo insieme le tessere di un mosaico spirituale. Una missione, come piace dire a lui. “Aveva fatto uno strano sogno in cui Dio gli presentava due gemelli, un doppio Gesù Cristo, e uno dei due aveva il suo volto, in definitiva era lui stesso”, racconta in un suo saggio Eva Di Stefano, tra i massimi esperti in Italia di Arte Irregolare, guida dell’Ossevatorio Outsiderart dell’Università di Palermo. “Allora comprese che era destinato a un compito per placare il Dio deluso e ferito dall’uomo e far sì che il Figlio tornasse sulla terra per ridestare un mondo morto”.
UN TEMPIO MERAVIGLIOSO
L’apocalisse, la grazia e la salvezza, la parola rivelatrice, i simboli biblici e la lotta contro il male: sono questi i temi che ricorrono nei suoi discorsi e nelle riflessioni. E che diventano immagini, potentissime. E dunque disegni, decorazioni, modulazioni architettoniche. Israele ha trasformato il vecchio faro in un tempio, una turris aurea intitolata alla grandezza di Dio, costellata di stelle di David. Con la pazienza di un monaco, la precisione di un amanuense, la vocazione di un mistico e la fatica di un operaio, ha ripulito e messo a posto l’antica struttura e poi ne ha fatto un gioiello. Mosaici sfavillanti, realizzati con materiali di risulta, coprono intere pareti, mentre vari interventi pittorici si srotolano, come un unico codice cifrato, tra gli interni, gli esterni, persino lungo il sentiero che conduce al Faro, ribattezzato “La Via Santa”: “Ogni elemento iconografico”, scrive la storica dell’arte Rachele Fiorelli, “è veicolo di messaggi simbolici: dagli angeli armati di spada, messi a guardia della Cattedrale e di Isravele stesso che lotta contro le sue tentazioni, alla simbologia del triangolo, declinato nella creazione delle stelle. Ma anche elementi più pop come i cuori o i ritagli dai calendari dei santi distribuiti dalle parrocchie, e ancora l’immagine di Ken il Guerriero o Bruce Lee il cui compito è quello di proteggere l’eremita”.
Un mix geniale. Per quella che si presenta come una “Cattedrale” strepitosa: non l’opera di un artigiano, ma il miracolo di un visionario. Finezza tecnica, magniloquenza e complessità simbolica si intrecciano in quest’impresa folle, che parrebbe il frutto di un lavoro di squadra. E invece no. Solo lui la mente, solo lui la mano, con quel bisogno di riscriversi una storia, una biografia epica, una via trascendentale oltre la banalità delle cose mondane.
CATTEDRALI DA PROTEGGERE
E torna il tema del futuro. Una questione spinosa in tema di Outsider Art. Che fine faranno queste opere, quando gli autori non ci saranno più? Opere nate al di fuori di qualunque mainstream, spesso effimere, non necessariamente pensate per durare, esposte al caso e al cielo. E quanto conta allora la volontà dell’autore? Già tanti capolavori sono andati persi, distrutti dal tempo, dall’incuria, da furti e danneggiamenti. E tantissimi sono a rischio. Dunque, che ne sarà del Faro di Israele? Non esiste, ad oggi, alcun vincolo della Soprintendenza su questo bene. Ma – come già avvenuto per il castello incantato di Filippo Bentivegna, a Sciacca, oggi museo regionale a cielo aperto – sembra essere questa la strada più giusta da perseguire, un domani, per salvare il “Semaforo”.
Restano infatti le Istituzioni le prime garanti, ai fini della tutela e della valorizzazione, qualora le imprese dei tanti “Costruttori di Babele” – cattedrali fantastiche, foreste di simboli, templi di pietra o rottami, sculture, dipinti misteriosi – vengano elette a patrimonio della collettività. Concepite nel silenzio, spesso in simbiosi col paesaggio, oltre i dettami del mercato, gli ingranaggi del sistema e i codici dell’alfabetizzazione artistica. Teatri marginali, non banalmente edificati nel segno del caso e della spontaneità; piuttosto, figli di un’urgenza superiore, di una volontà, di un desiderio alto. E di un’idea del tempo in cui l’ossessione coincide con la devozione. Tra fatica e lentezza.
Helga Marsala
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