Fedele da sempre a un’idea di pittura monumentale, figurativa, iperrealista, ultra definita, Nicola Verlato – cinquantunenne di Verona, con base a Los Angeles – rilegge la grande tradizione cinquecentesca e la fonde coi linguaggi del presente. Dal muralismo urbano al videogame. Massimo spazio alle nuove tecnologie, tra realtà virtuale e realtà aumentata, ma con l’ottica di uno sperimentatore del Rinascimento. Una pittura che prende vita, dentro e oltre la tela. Con lui abbiamo discusso di immagini, di processi creativi, di strumenti digitali e di linguaggi matematici, della condizione della pittura figurativa oggi e del suo legame col passato, col tempo, con la morte. Partendo dall’ultimo affascinante lavoro, presentato a Toronto.
Lo scorso 1° ottobre, in occasione della Nuit Blanche di Toronto, hai presentato una app che consente allo spettatore di esplorare un tuo dipinto e di fruirlo in modo virtuale. Come funziona?
La app si chiama The merging ed è scaricabile su iTunes. Il funzionamento è molto semplice: una volta che si punta la camera dello smartphone o del tablet verso il dipinto, questo funziona come un trigger che attiva due diverse modalità di AR (Realà Aumentata) e VR (Realtà Virtuale) in sequenza: dapprima si vedono alcune figure dipinte divenire tridimensionali nello spazio reale, poi, puntando su di una figura specifica, si entra nello spazio pittorico e lo si esplora come un videogioco, scoprendo spazi e aperture non percepibili nel quadro a occhio nudo.
Il progetto si ispira alle figure di Marshall McLuhan e Donald Coxeter. Perché?
Si tratta di due eminenti intellettuali che hanno insegnato a Toronto, entrambi importanti per il mio lavoro. McLuhan è noto per aver capito che a ogni cambiamento tecnico nel campo dei media segue un cambiamento nella nostra visione del mondo. Ne deriva che i nostri strumenti di rappresentazione coincidono con il contenuto che veicolano.
L’esplosione del digitale ha poi causato enormi rivolgimenti nella nostra percezione delle cose ed è qui che entra in campo Coxeter, uno studioso che dedicò tutta la vita all’aspetto visivo della matematica, ovvero la geometria: una disciplina che ai suoi tempi pareva essere in declino. Il suo lavoro è tornato di grande attualità proprio grazie ai programmi 3D che rendono possibile l’immediata visualizzazione ed esplorazione tridimensionale di polytopes e polyhedra, oggetto della sua ricerca. The merging vuole significare proprio questo: la possibilità di tornare a ricongiungere intuizione e pensiero analitico, esattezza del calcolo e visione sensoriale.
In realtà è da circa vent’anni che utilizzi la Computer Generated Imagery, sistema di computer grafica in 3D. Come nascono le tue immagini e come avviene il passaggio dal digitale alla pittura?
Nel mio metodo di lavoro fondo il sapere visionario del disegno e l’esattezza matematica delle rappresentazioni prospettiche. Nel caso di The merging sono partito come al solito da innumerevoli schizzi a penna su carta, a cui è seguita l’elaborazione di un primo modello 3D realizzato con Maya e Poser. A questo punto ho aggiunto un nuovo aspetto, rispetto al mio processo consueto, recandomi in un laboratorio con modelli e modelle in carne e ossa. Li ho messi in posa e li ho scannerizzati con un sistema di 150 fotocamere disposte a 360 gradi, che scattano simultaneamente e che producono altrettante fotogrammetrie, poi compattate in un file 3D per ogni singola figura.
Successivamente ho dovuto ripulire e rimodellare con Zbrush tutti i file e solo dopo questo lungo passaggio li ho rilocati nel modello 3D generale, in cui poi ho applicato le luci definitive e ho eseguito i vari rendering.
È un po’ come fondere la logica dei videogame e quella della pittura. Due forme di rappresentazione visiva: una immateriale e interattiva, l’altra fisica ma priva di movimento. In che punto si incontrano?
Ho scritto un saggio per un libro chiamato The figure, pubblicato da Rizzoli qui negli USA, dove investigo i rapporti fra prospettiva geometrica e democrazia, dall’antica Grecia all’era dei videogiochi.
Potrei dire che le cose hanno funzionato per me come per Coxeter: una fondamentale innovazione tecnologica mi ha fatto capire che si potevano riattivare discipline ormai date per defunte. Mi sono accorto della possibilità di un incontro fra pittura e videogame quando, nel 1982, ho visto una presentazione del film Tron su una rivista: immediatamente capii la assoluta coincidenza fra i wireframe dei modelli 3D del film e i disegni prospettici di Piero della Francesca e Paolo Uccello.
Mi apparve chiara la possibilità di continuare il progetto rinascimentale di ricostruzione del mondo in termini geometrici, lasciato interrotto per secoli a favore di una documentazione ottica della realtà, culminata nella sua fissazione chimico-fotografica.
Ecco l’enorme differenza fra immagini fotografiche e immagini prodotte al computer: dietro queste ultime c’è un modello costruito geometricamente, del quale si possono ottenere infinite immagini, combinando infiniti punti di vista e variazioni luminose. Uno strumento perfetto per una pratica pittorico-narrativa. È proprio il contrario della fotografia, che per la pittura fu invece dannosa.
La tua iconografia, caratterizzata da prospettive aberrate e da una sorta di ultrarealismo, ha in sé qualcosa di futuristico. E però, i riferimenti storici (Barocco, Manierismo) sono palesi. Da dove deriva la fascinazione per la grande pittura europea del Cinquecento e del Seicento?
Io vedo l’Occidente come un campo conflittuale fra la cultura delle immagini e la loro negazione, interrotto da rari momenti di equilibrio. Il periodo tra il Cinquecento e il Seicento corrisponde, in questa prospettiva, al momento più maturo della seconda ripresa del cammino delle immagini, per cui mi è sempre sembrato ovvio che si dovesse ripartire da lì. L’Ottocento accademico, invece – che a un certo punto diventò uno stile internazionale – in realtà mi è sempre parso privo di una mitologia appropriata, oltre che di una corrispondenza fra tecnologia del tempo e metodologie pittoriche.
Cosa significa per te essere un artista contemporaneo?
Significa portare verso il loro logico compimento dei processi che sono chiaramente in atto. Ad esempio, mi pare chiaro che da decenni il rapporto fra cultura di massa e arti sia divenuto uno dei temi centrali, a partire dalla Pop Art, e che molti progressi siano stati fatti in questa direzione; per cui, se Andy Warhol trasportava su tela le immagini delle riviste, senza apporvi alcuna variazione, dagli Anni Ottanta in poi molta pittura si è basata su immagini ricavate dal collage e su figure provenienti da diverse fonti, vedi Mark Tansey. Oggi abbiamo a disposizione tecnologie che ci permettono di sminuzzare in modo infinitesimale le informazioni provenienti dai media e di ricostruirle in modelli 3D perfettamente manipolabili, addirittura di animarle. Non vedo perché non sfruttare questa possibilità. E infatti è ciò che faccio.
Un esempio, dalla tua produzione?
Il dipinto presentato alla Biennale di Venezia del 2009, che riprendeva un disegno a penna di Warhol raffigurante la morte di James Dean: oltre a essere un bellissimo, rivelava la scarsa disponibilità – per quel tempo – di informazioni relative al fatto di cronaca in oggetto. Il mio lavoro, riprendendo esattamente la composizione di Warhol, si basava su una ricostruzione dettagliata al pc del viso di James Dean e della sua automobile. L’infinita mole di informazioni, oggi a nostra disposizione, attende solo di essere strutturata in modelli.
Cos’è la retorica e quanto c’entra con la tua pittura? È possibile imparare a usarla senza esserne travolti?
Potrebbe essere intesa come l’arte di comunicare idee attraverso composizioni e gestualità delle figure dipinte. Oggi la si potrebbe riconsiderare sulla base dei nuovi studi di Freedberg-Gallese. Per il mio lavoro rappresenta uno strumento importante, utile a comunicare specifici messaggi e a trasformare ogni singolo quadro in un evento in sé, più che nella mera risultanza di un pratica consuetudinaria. Per molto tempo, l’idea di non riuscire a controllarla è stato un mio assillo, e credo che lo sia per molti pittori figurativi. La soluzione sta nel porsi uno scopo il quanto più possibile preciso, cercare qualcosa che vada al di là dello spazio esclusivo del dipinto e che tenga conto della sua finalità sociale, del territorio che eventualmente andrebbe a occupare. La pittura figurativa spogliata del suo scopo sociale risulta svuotata di senso e perciò retorica nell’accezione più negativa del termine.
Il senso del monumentale predomina nella tua pittura. La recente ricerca sul muralismo urbano e gli esperimenti con la tecnologia spingono l’oggetto sacro della tela verso una dimensione temporale, caduca. Antimonumentale. È una specie di dialettica? Un esempio tipico è il progetto del Mausoleo per Pasolini, accompagnato da una serie di murales.
A dir la verità anche il monumento mi sembra essere la logica conseguenza di un accumulo di interesse collettivo, e quindi di informazioni, intorno a eventi avvenuti in luoghi specifici. L’antimonumentale che tu intravedi lo considero come un fattore collaterale e non centrale del mio lavoro: diciamo che questi progetti possono essere letti in due direzioni.
Il monumento a Pasolini concepito per Ostia sarebbe una risposta alla densità di una figura che ha una impressionante influenza sul nostro Paese, la traduzione di un affetto che in Italia ho sentito quasi come un’adorazione religiosa. Il carattere è certamente celebrativo.
Anche l’aspetto “immateriale” della app può essere ribaltato nella materializzazione di un ulteriore livello fra l’utente e il dipinto. Un livello in cui vengono alla luce tutte le immagini sottese alla pittura, cosa che sarebbe applicabile a ogni opera di Piero della Francesca, Raffaello o Antonello.
Qual è la condizione dell’arte figurativa, oggi? Prevale ancora un dominio dell’astrazione? O forse questa distinzione non significa più nulla?
La figurazione oggi mi sembra sorprendentemente vitale. Il mio lavoro è stato pubblicato di recente sul libro di Suzanne Hudson Painting now; l’autrice stessa sembra essere sbalordita, non senza qualche nota di disappunto, dall’enorme quantità di figure dipinte che si aggirano per il mercato internazionale. Mi pare questo avvenga, però, a patto che le figure non siano del tutto finite, che siano deformi, semi cancellate, semi distrutte. Sembra che ci sia una soglia che non debba essere superata, cosa che io invece faccio con tranquillità ed entusiasmo. Sono rimasto infatti sorpreso dalla mia presenza in un libro del genere.
D’altra parte ci sono altri ambiti della pittura figurativa attuale che non passano sotto il radar ufficiale e che recuperano sistemi accademici di rappresentazione, sempre più popolari. Qui il problema è opposto e simmetrico: la finitura estrema del dipinto si accompagna all’assenza di ogni possibile coinvolgimento con le narrazioni del presente.
Ti sei occupato spesso di opere nello spazio pubblico. Come ti relazioni al tema della durata, del deperimento, della conservazione? E, più in generale, come senti il rapporto tra l’immagine e la morte?
Non credo stia a chi le realizza la decisione se far durare o meno le opere, ma sicuramente non sta all’autore decidere se distruggerle, dal momento che sono state concepite per il pubblico. Le opere che resistono sono quelle che avviano un processo antropologico nelle comunità di riferimento, là dove scatta il desiderio della durata. Il punto, allora, sta nella scelta di avviare o meno quel processo.
Ma è proprio il rapporto con la morte, intrattenuto dalle immagini, che crea il discrimine fra culture diverse. Io credo che le immagini debbano durare proprio perché testimonianza nella vita di ciò che, morendo, andremo a incontrare; sono una preparazione nel presente dell’eterno, un canale verso quel momento che lega fra loro gli esseri umani di tutte le epoche. Testimonianze della nostra unità sostanziale a dispetto del tempo, delle generazioni, della nostra stessa individualità.
Helga Marsala
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