Brain Drain. Parola a Valentina Orrù
Nuovo appuntamento con i “cervelli in fuga” dal Belpaese. Stavolta tocca a Valentina Orrù, che, lasciata la Sardegna, è ora di stanza molto più a nord.
È partita da Mogoro, un paesino della provincia di Oristano, in Sardegna, e ora si ritrova in Cornovaglia. È Valentina Orrù, classe 1988, e a Saint Ives ricopre il ruolo di Programme and Communications Assistant del progetto Circuit targato Tate.
Come sei arrivata nel Regno Unito?
Mi trovo in UK da circa cinque anni, dopo aver ottenuto un master e lavorato per varie organizzazioni, spesso come volontaria non retribuita, e coprendo diversi ruoli. Capire le dinamiche del settore non è stato immediato: la competizione è molto alta e in generale viene dato molto peso alle esperienze. Quando ho letto sul sito della Tate che era aperta una posizione di Programme and Communications Assistant, ho pensato che fosse perfetto per quello che cercavo in quel momento. Ho semplicemente compilato la domanda online e dopo una decina di giorni sono stata invitata al colloquio. Il giorno dopo mi hanno telefonato per offrirmi il lavoro. And that’s it!
Di cosa ti occupi?
Mi occupo di gestione e marketing di Circuit, un progetto educativo di quattro anni per il pubblico dei giovani di età compresa fra i 15 e i 25 anni, finanziato dalla Paul Hamlyn Foundation, che coinvolge alcune delle istituzioni di Plus Tate, una rete di musei del Regno Unito in cui Tate è capofila. In particolare lavoro a Tate St Ives, con una buona autonomia progettuale, contribuendo all’ideazione delle iniziative insieme ai colleghi del dipartimento educativo e del marketing.
Esistono forme di riconoscimento ufficiale della professione in UK?
No, non esistono. Nel settore museale si possono trovare professionalità molto eterogenee. Il confronto tra diverse competenze all’interno dell’organizzazione è all’ordine del giorno ed è uno degli aspetti che rende il lavoro entusiasmante. Per quanto riguarda i contratti, le posizioni a tempo indeterminato e full-time sono meno comuni di quelle a tempo determinato, part-time o freelance, ed è molto diffuso, in particolare nei ruoli di interfaccia con il pubblico, il cosiddetto “contratto a zero ore”, più o meno corrispondente al contratto a chiamata italiano. Tuttavia è possibile accedere al settore attraverso il volontariato, con cui ci si può formare: è un modo per iniziare ad accumulare esperienza utile per poi riuscire a trovare posizioni retribuite e buone condizioni contrattuali.
Contesto culturale?
Inglese, ma anche internazionale. Ad esempio, ciascun museo della rete di Circuit lavora nel proprio contesto regionale ed è in un rapporto di scambio con gli altri musei; allo stesso tempo viene tenuto d’occhio anche cosa succede fuori del Regno Unito. Negli ultimi anni ci sono stati molti tagli ai fondi alla cultura che partono dal governo centrale, con un conseguente reindirizzamento nella distribuzione dei finanziamenti da parte dell’Arts Council. In questo contesto, i musei hanno attivato diversi modelli di ristrutturazione interna, fundraising e sponsorizzazione, in cui spesso è il settore privato a occupare un ruolo importante.
Come si vive il contemporaneo?
Ci si interroga molto sul ruolo dei musei e dell’arte nella società civile, e su come creare maggiori opportunità di fruizione e apertura a diversi tipi di pubblico. Nei dipartimenti educativi si fa sempre più uso di strumenti digitali, e in generale la tendenza è quella di supportare sempre più le scelte di programmazione sulla base di ricerche sul pubblico e strategie di comunicazione ad hoc.
Hai possibilità di aggiornarti?
Sì, continuamente. Come e dove dipende dai miei obiettivi di sviluppo professionale, rispetto sia al mio ruolo nel progetto che nell’organizzazione. Per esempio ho l’opportunità di trascorrere del tempo negli altri siti Tate, o negli altri musei della rete, acquisire nuove competenze da loro e confrontarmi con altri team su idee, pratiche e modi di lavorare.
Com’è il sistema artistico inglese?
È Londra-centrico, dal punto di vista della concentrazione di organizzazioni e di conseguenza della distribuzione dei finanziamenti. Ma ci sono realtà molto vive e interessanti anche in altre città, per esempio Manchester, Liverpool, Leeds o Bristol, col vantaggio che in questi contesti è molto più facile trovare e potersi permettere di prendere in affitto uno spazio. In particolare Liverpool, con la Liverpool Biennial, ha una scena artistica internazionale.
Quale visione futura si sta dando la Tate?
Sostenere l’arte e il suo ruolo all’interno della società. Ha aperto l’espansione della Tate Modern a Londra, mentre nell’autunno 2017 inaugurerà il nuovo Tate St Ives. Attraverso questi e altri progetti futuri, l’obiettivo è che il museo diventi sempre di più un luogo di fruizione dell’arte con una funzione sociale, in un’ottica di inclusività e diversità sia dei pubblici che del proprio staff.
Come si vede l’Italia da quel punto di osservazione?
Anche in Italia si parla molto di audience development e c’è sempre più attenzione al ruolo dei musei nella società, che non guarda più solo a conservazione e tutela, ma a fruizione e partecipazione. Tuttavia penso che nel settore ci sia ancora poca apertura a nuove competenze e scarsa dinamicità nei processi di rinnovamento, e quindi una limitata offerta di lavoro. Uno dei punti di forza è che l’Italia può prendere il meglio dal proprio ritardo su certi processi e tematiche, facendo propri solo gli aspetti positivi delle esperienze estere.
Neve Mazzoleni
www.tate.org.uk/visit/tate-st-ives
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #33
Abbonati ad Artribune Magazine
Acquista la tua inserzione sul prossimo Artribune
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati