Il miracolo culturale di Forlì. Intervista a Gianfranco Brunelli
Per Antonio Paolucci, Forlì è un miracolo, perché ha scelto di darsi una riconoscibile identità e “ha saputo aggregare un blocco compatto di investitura culturale, di determinazione politica e di risorse economiche guidandolo, senza incertezze e senza ripensamenti, al risultato”. Ma c'è una persona che, fin dall'inizio, ha lavorato senza clamore perché tutto ciò si potesse realizzare. A pochi giorni dall'apertura della mostra “Art Déco. Gli anni ruggenti in Italia”, abbiamo intervistato Gianfranco Brunelli.
Siamo alla dodicesima. Tante le tappe del percorso che ha portato Forlì, in poco più di un decennio, a trasformarsi – da centro romagnolo di scarsa attrattiva, schiacciata com’era tra Bologna e la riviera romagnola – in città d’arte. Un successo clamoroso che si è basato su quella che Paolucci definisce “Santa Alleanza”, l’intesa civica tra la Municipalità e la Fondazione Cassa dei Risparmi, grazie alla quale consistenti risorse finanziarie e umane hanno dapprima permesso il restauro del complesso di San Domenico – all’epoca sembrava “sovradimensionato rispetto al solo bacino di utenza di Forlì” – e poi ha dato vita a una programmazione di mostre sempre originali, scientificamente fondate e al contempo piacevoli e capaci di attrarre un largo pubblico.
Un volume appena dato alle stampe – Forlì. Dieci storie di grande arte. 2005-2015 – ripercorre con orgoglio i primi dieci anni di questa storia, da Marco Palmezzano a Giovanni Bodini. Vi si narra della riscoperta di un’identità storico-culturale al di fuori di una logica meramente localistica, del milione di visitatori e più di duemila opere portate nella cittadina romagnola.
Il progetto del 2017 è dedicato all’Art Déco, ai suoi confini e alla sua portata. Abbiamo approfondito alcuni aspetti con Gianfranco Brunelli: direttore generale di tutte le mostre – ma ricordiamo pure il suo ruolo nel coordinamento di Progetto Cultura di Intesa Sanpaolo, nell’ambito del quale ha ideato le Gallerie d’Italia di Piazza Scala a Milano –, dal 2005 sovrintende, dietro le quinte, una complessa macchina organizzativa formata da persone, istituzioni, relazioni.
Un anno fa inaugurava Piero della Francesca. Indagine su un mito, una mostra piuttosto discussa. Che risultati ha ottenuto?
La mostra dell’anno scorso ha suscitato un forte interesse scientifico sia in Italia sia all’estero, in particolare negli Stati Uniti, e ha avuto soprattutto il pregio di mettere in luce tutti gli aspetti della riscoperta dell’arte pierfrancescana a partire dal XX secolo, il periodo sul quale, la maggior parte delle volte, si concentrano gli interessi del Comitato: il senso dell’iniziativa era pertanto l’indagine sul mito di Piero. Come avrà notato, nelle nostre mostre sono più importanti i sottotitoli dei titoli…
E il pubblico come ha risposto?
L’esposizione ha attirato 130mila visitatori, per il 50% organizzati in gruppi e per l’altro 50% singoli: non un target di specialisti, quindi, ma trasversale; in questa cifra sono compresi anche 15mila studenti della provincia e non solo. I dati confermano il nostro intento: costruire dei progetti che abbiano sempre sfaccettati livelli di lettura, da quello – imprescindibile – della ricerca alla capacità di farsi apprezzare e comprendere da tutti.
Quali le ragioni della scelta all’origine del focus sull’Art Déco?
Prima di tutto l’obiettivo è stato superare – se ancora ce ne fosse bisogno – l’antica distinzione tra arti “maggiori” e “minori”: i brevi anni che videro l’esplosione del Déco coinvolsero tutte le discipline, dalla pittura alla scultura, dalla moda alla ceramica, dall’oreficeria all’architettura. Abbiamo voluto mettere in scena l’immagine di un mondo. Un mondo durato pochi anni, pervaso da uno spirito leggero, talvolta futile, guidato dall’illusione di poter separare la storia dalla bellezza. Ma, come nel volo di Icaro, la corsa sfrenata verso il sole ha comportato una violenta caduta, un precipitare nella tragedia che accadde nella seconda metà degli Anni Trenta.
Che risultati ha dato lo studio sui “ruggenti” Anni Venti?
Quello che ora pare chiaro è che l’Art Déco italiana è stata proprio quel tentativo di inseguire la bellezza, eccessivo e folle forse, ma non vano: ha lasciato in eredità il glamour, la buona pratica della produzione artistica e industriale che ancora oggi distingue il nostro Paese nel mondo; ha inaugurato quel processo di democratizzazione delle arti che ha permesso anche alle classi sociali “basse” di poter acquistare qualcosa di bello, ha emancipato la figura della donna ponendo, per fare un solo esempio, le basi della moda.
Un esempio per capire meglio la portata dell’Art Déco?
Durante l’Expo di Parigi del 1925 fu Gio Ponti a vincere la medaglia d’oro con l’otre La casa degli Efebi, e molti altri italiani si aggiudicarono premi in quell’occasione; ancora, dopo la crisi del 1929, tanti artisti della Penisola emigrarono oltreoceano in cerca di fortuna, trovandola e diffondendo il “made in Italy” nel mondo.
Tornando al “modello Forlì”, mi pare centrale la “reputazione” che lo caratterizza. Come si è costruita negli anni?
Pretendiamo che sia sempre forte l’elemento legato alla critica, al confronto e alla tensione verso l’apertura di nuove piste. Il Comitato scientifico sceglie di volta in volta i curatori per la loro conoscenza ed esperienza della materia; non vogliamo mostre autoreferenziali, ma una profonda condivisione di intenti e un confronto incessante tra i punti di vista. La ricerca scientifica, poi, ha bisogno del contributo di tanti: sono stati circa novanta gli studiosi coinvolti in questi dodici anni, e ognuno ha messo al servizio di una causa comune le sue relazioni, contribuendo alla buona reputazione che si è venuta a creare. Il successo delle mostre di Forlì sta, però, anche nella durata nel tempo dell’intero progetto.
Quanto costano le mostre allestite al San Domenico?
In media i nostri progetti sono costati circa due milioni di euro ciascuno, e per ogni euro investito dalla Fondazione ne sono giunti nel territorio da 1,7 a 2,4. Quindi hanno costituito un importante volano di sviluppo e dato risultati positivi per tutti.
Proviamo, infine, a chiedere a Gianfranco Brunelli se c’è una mostra che ha amato più delle altre. Risponde di no, naturalmente… “Per ciascuna ho fatto i conti con me stesso e con la mia coscienza”. Non approfondiamo, è sufficiente osservare l’espressione di un uomo che sta lavorando con rara serietà, mettendo in campo una tangibile responsabilità nei confronti dei singoli progetti e della collettività.
– Marta Santacatterina
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati