Brain Drain. Parola a Pia Bolognesi
Da Milano a Berlino, passando per gli Stati Uniti, Pia Bolognesi ha trovato nel viaggio una dimensione adatta al suo ruolo di curatrice. Ampliando i propri orizzonti e mantenendo comunque vivo il legame con l’Italia.
Sul filo della passione e ricerca delle pratiche art time-based, Pia Bolognesi (Pistoia, 1981) ha aperto i suoi orizzonti viaggiando fra Stati Uniti e Germania, dove ora risiede, pur mantenendo rapporti con l’Italia: ha infatti da poco curato, insieme a Giulio Bursi, una mostra in Triennale su Christopher Williams.
Studi universitari in patria e poi il PhD che ti ha aperto le porte del mondo. Perché è così importante uscire?
Durante il dottorato ho portato avanti una ricerca che si è svolta in parte negli Stati Uniti, a Boston e New York. È stato naturale per me attivare certe connessioni che nel corso degli anni si sono espanse, coinvolgendo e modulando la mia pratica di curatrice. Credo che in generale aprirsi e confrontarsi con altre realtà, di studio e professionali, non sia solo un valore aggiunto, ma qualcosa d’imprescindibile. Non è un percorso che ho pragmaticamente calcolato, credo sia stata un’evoluzione che si è costruita nel tempo.
Ora vivi a Berlino, una scena ricchissima e matura anche per i tuoi interessi di ricerca come artista e curatrice. Quali sono i vantaggi di lavorare lì?
Berlino ha una scena fervida e per me è sicuramente stimolante vivere in una comunità internazionale. Ci sono possibilità differenti rispetto all’Italia in termini di supporto economico, i fondi nazionali e regionali, le co-produzioni internazionali, o istituzioni come il Goethe-Institut; ma anche spazi fisici che facilitano la presentazione delle ricerche. Non ti nego che questo tipo di sostegno ha influito sulla scelta di rimanere qui.
Quali sono i luoghi di riferimento per aggiornarti e confrontarti con la scena artistica?
In generale, oltre alla scena berlinese – frequento spesso istituzioni come KW, Schinkel Pavillon, e gallerie come Buchholz, Capitain Petzel, Esther Schipper, o più giovani come Tanya Leighton e Kraupa-Tuskany –, seguo molto la programmazione del MoMA per quel che riguarda la performance, così come la Tate per le pratiche time-based. Non frequento quanto vorrei i festival, purtroppo per mancanza di tempo, invece dedico particolare attenzione agli artist-run space e agli spazi indipendenti, sia in Europa che negli Stati Uniti.
“Sono ancora legata a Milano, città che si sta attivando negli ultimi anni. Un punto di forza è l’alta qualità dell’editoria legata all’arte, una tradizione che prosegue con ottimi risultati”.
Rispetto ai tuoi interessi sulle pratiche time-based, quali le istituzioni che se ne occupano?
Devo ammettere che il mio interesse per le pratiche time-based si sta aprendo verso la scultura, la fotografia, l’installazione più classica e soprattutto l’editoria. Trovo molto interessante la scena che si è sviluppata intorno alla Stadtschule di Francoforte ma anche alla Kunstakademie di Düsseldorf, con progetti come Rhein Verlag e Papier und Gelb, che nascono proprio da questa realtà. E sicuramente Lipsia è una città da tenere d’occhio.
Qual è il rapporto con le istituzioni pubbliche e private?
Collaboro con Archive Books come associate editor e come curatrice alla programmazione espositiva di Archive Kabinett, che fa parte di una comunità di spazi indipendenti che mi consente di sviluppare una rete di relazioni e supporti. Come sponsor, oltre a quelli istituzionali e nazionali di cui ti parlavo, ci sono buone relazioni con fondazioni private e istituti di ricerca universitari.
Mantieni contatti con l’Italia? Quali sono i punti di forza e quali le fragilità rispetto al mondo dell’arte?
Sicuramente i miei rapporti con l’Italia sono continui, dove collaboro al momento con diverse strutture, private e pubbliche, ma soprattutto sono ancora legata a Milano, città che si sta attivando negli ultimi anni: ci sono progetti indipendenti che stanno mappando una nuova scena culturale. Un punto di forza per me rimane l’alta qualità dell’editoria legata all’arte, una tradizione che prosegue con ottimi risultati.
Cosa serve al sistema dell’arte nazionale affinché gli artisti italiani possano trovare opportunità internazionali?
Credo che sviluppare un sistema di mobilità internazionale che offra un sostegno concreto sia essenziale non solo per permettere agli artisti e ai curatori di potersi muovere all’interno di un panorama più vasto, ma soprattutto per le ricadute che questo può portare sul territorio nazionale in termini di formazione e alta qualità dei progetti.
Torneresti in patria? A quali condizioni?
Non sto pensando alla mia decisione di vivere a Berlino come qualcosa di definitivo. Anche se al momento credo che la mia base resterà qui, non escludo di spostarmi in futuro, o di tornare in Italia. Spero si arrivi a una certa conformità internazionale e che le politiche culturali nazionali, ancora troppo deboli, creino più possibilità, soprattutto per chi porta avanti pratiche indipendenti.
‒ Neve Mazzoleni
www.atelierimpopulaire.tumblr.com
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #37
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