… e storie simili. L’editoriale di Marco Senaldi
Lea Vergine non ha solo praticato la “critica”, ma fa parte di quel numero ristretto di persone che hanno saputo, con i loro libri, i loro interventi, le loro mostre e il loro impegno, ridisegnare uno scenario sociale e culturale, che è quello in cui ancora ci muoviamo.
Sinceramente non so per quale motivo la mia copia de Il corpo come linguaggio (La “Body-art” e storie simili), pubblicato da Giampaolo Prearo nel 1974 (nella collana “preariana” di Tommaso Trini!), sia ridotta in uno stato tanto pietoso. Ma ricordo bene di non averla affatto acquistata in libreria, dato che invece era frutto di uno baratto (ma in cambio di cosa, poi?) col mio amico Antonio Curcetti, il solo con cui, all’epoca, potevamo condividere interessi simili. Dev’essere stato lui, in effetti, a sfracellare la delicata ed elegante sovraccoperta, con l’indimenticabile ritratto di Urs Lüthi, forse usandola come sostegno per ritagliare qualche foto o per farci chissà cosa.
In effetti, però, il libro, come una sorta di talismano in grado di esorcizzarci da ogni malinconia leopardiana, era passato di mano in mano, tra noi ginnasiali, talmente tante volte da essersi non solo sciupato, ma letteralmente consumato, riempito di segni e persino timbrato col marchio che c’eravamo inventati allora: “Ostruzione poetica”.
La lista dei personaggi e, ovviamente, la sequenza dei loro volti e delle immagini delle loro performance è talmente radicata nella mia memoria che potrei quasi citarli di fila, come la formazione di una squadra di calcio: Katharina Sieverding, Valentina Berardinone, Giuseppe Desiato, Janos Urban… lista suggellata dall’immagine, enigmatica quanto affascinante, della curatrice, Lea Vergine.
L’INCONTRO CON LEA VERGINE
Quando, molto più tardi, ho conosciuto Lea Vergine di persona, dunque, per me era davvero come incontrare un mito: non un mito qualunque, ma un mito dell’adolescenza, di quelli che in qualche modo segnano le scelte più mature, e che poi ti rimangono accanto in tutti questi anni per ricordarti sempre cosa stai facendo e perché. Ma la cosa che non potevo certo prevedere era che la stessa persona che aveva costruito quella audace e originale raccolta di opere così radicali fosse anche una donna non solo di infinito charme, ma anche di inarrivabile signorilità. Il fatto è che, nella nostra anima ingenua, gli strani rituali di Terry Fox o le protesi di Rebecca Horn si mescolavano con l’aplomb da femme fatale di Urs Lüthi e con l’immagine stessa di Lea Vergine, che, per pura associazione mentale, pensavamo fosse lei stessa una performer.
Eravamo veramente naïf, ma anche sinceri. E in fondo, a ripensarci, in quella sincerità avevamo visto giusto: Il corpo come linguaggio, infatti, spicca ancor oggi per la raffinata orchestrazione di questi due registri apparentemente inconciliabili: una notevole eleganza grafica, a cominciare dalla copertina, unita (o meglio, contraddetta) dalla più o meno esibita violenza sovversiva delle operazioni artistiche documentate.
CRITICA D’ARTE? È RIDUTTIVO
Oggi però, leggendo i tanti ricordi che Lea Vergine rievoca nelle conversazioni di L’arte non è faccenda di persona perbene (Rizzoli, 2016), possiamo capire da dove nasceva questo dissidio. La storia della vita di questa grande critica d’arte affonda infatti le radici in un vissuto scisso tra educazione “perbene” e profondi traumi familiari; al punto tale che non stupisce che, con grande precocità, si sia rivolta all’arte del suo tempo, poiché – come dice Lea Vergine stessa – “l’arte ti costringe a confrontarti col tuo lato oscuro”. Non solo lei è stata la prima in Italia a occuparsi dell’arte del corpo, ma anche la prima ad affrontare il tema degli eccentrici, o delle artiste donne (L’altra metà dell’avanguardia, 1980), ma sempre con un rigore e un coraggio che meriterebbero a loro volta una mostra retrospettiva.
È per questo che, nel suo caso, la definizione stessa di “critica d’arte” mi pare riduttiva: Lea Vergine non ha solo praticato la “critica”, ma fa parte di quel numero ristretto di persone che hanno saputo, con i loro libri, i loro interventi, le loro mostre e il loro impegno, ridisegnare uno scenario sociale e culturale, che è quello in cui ancora ci muoviamo.
Forse, anche se siamo il Paese ingrato che siamo, dovremmo trattare queste figure non solo con più rispetto, ma soprattutto con più affetto.
– Marco Senaldi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #36
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