Brain Drain. Parola ad Anna Spreafico
Nuovo appuntamento con i cervelli in fuga italiani. Stavolta tocca ad Anna Spreafico narrare la sua storia, lungo una rotta che da Milano l’ha portata a Istanbul.
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Si è formata con esterni, coordinando il Public Design Festival a Milano. Classe 1978, Anna Spreafico è una project manager per la cultura che tre anni fa ha scelto Istanbul come luogo dove vivere. Senza però troncare i legami con l’Italia.
Cosa facevi a Milano e cosa fai ora a Istanbul?
Mi sono trasferita a Istanbul circa tre anni fa ma continuo a lavorare principalmente in Italia. Per undici anni ho lavorato per esterni come coordinatrice del Public Design Festival e project manager per altri progetti. Oggi collaboro ancora con esterni, con BASE Milano e altre organizzazioni. E ho dato vita al mio progetto, On printed paper, insieme a altre due persone.
Come hai risentito delle trasformazioni e degli accadimenti in città?
Sono arrivata a Istanbul un anno dopo le proteste di Gezi Park. A quel tempo si respirava aria di cambiamento. Le elezioni di maggio 2015 con l’AKP che perde per la prima volta la maggioranza assoluta e l’HDP – il Partito Democratico dei Popoli che sostiene la causa dei curdi – che per la prima volta conquista dei rappresentati in Parlamento avevano cambiato gli equilibri. L’epilogo è noto a tutti. Dopo il Colpo di Stato e fino al referendum costituzionale il clima è stato di totale incertezza. Io stessa avevo iniziato a costruire dei progetti con un’agenzia, ma dopo il 15 luglio tutto è rimasto in sospeso. Ora forse le cose sembrano ripartire, ma lentamente.
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BASE Milano
Com’è la scena culturale? Quali luoghi frequenti?
La città offre molto, ma chi ci vive da prima di me lamenta che è diminuita e soprattutto sono cambiati i luoghi. Ora si tende a fare tutto in spazi privati e sopravvivono le realtà più grandi. Io frequento spazi come SALT Galata, Arter, Mixer o Borusan Contemporary. Ultimamente mi piace molto Bomontiada: è una vecchia fabbrica di birra recuperata. All’interno trovi Babylon, con una programmazione musicale molto interessante, una galleria d’arte, dei ristoranti e Atölye, uno spazio di coworking e innovazione culturale. Anche se nasce come progetto commerciale, e per entrare si passa da metal detector e controlli, si respira buona energia e c’è quell’idea di piazza a me tanto cara.
Come mantieni le relazioni con l’Italia?
L’Italia ancora è il mio punto di riferimento, e Skype o WhatsApp semplificano le cose. Milano, che è la mia “casa”, la vedo viva come non mai.
La cultura è sentita nelle politiche pubbliche?
Non esistono praticamente politiche culturali pubbliche. Qui tutte le iniziative sono supportate dai privati. Basta pensare che la stessa IKSV – promotrice, tra le varie attività, delle Biennali di arte e design, nonché responsabile del Padiglione Turchia alla Biennale di Venezia – è un’organizzazione non governativa nata dall’iniziativa di privati, così come Istanbul Modern.
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Biennale di Istanbul 2017. Ph. Sahir Ugur Eren
Un’esperienza come quella di esterni potrebbe esistere a Istanbul?
Fatico a immaginarlo, anche se ci sono eccezioni, come il festival di fotografia FotoIstanbul che, supportato dalla municipalità di Beşiktaş, ha una programmazione di altissima qualità e utilizza gli spazi pubblici in modo interessante, riuscendo a lavorare bene sull’inclusione sociale.
Cosa prendi di buono dall’esperienza italiana e cosa da quella turca per la gestione della cultura?
In Italia la cultura è un bene pubblico e come tale viene preservata. Qui ammiro l’iniziativa privata: anche se molti progetti hanno vita breve, la produzione non si ferma. E ammiro la lungimiranza dei grandi soggetti privati che si fanno carico di colmare un vuoto pubblico, peraltro garantendo accessibilità a tutti. Spazi come SALT o Arter, ad esempio, non prevedono alcun biglietto d’ingresso.
‒ Neve Mazzoleni
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #38
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