Festival Filosofia. Ne parliamo col direttore del Mart
Gianfranco Maraniello terrà la sua lecture sabato 16 settembre. Ed è l’unico relatore invitato al Festival Filosofia che faccia parte del mondo dell’arte. Qualcosa non funziona? Ne abbiamo parlato con lui, e poi siamo finiti a discorrere di musei e critica istituzionale.
Mi pare che tu sia l’unico “professionista” del mondo dell’arte a esser stato invitato al Festival Filosofia di quest’anno. Eppure il tema è proprio l’arte, anzi le arti. Significa che ancora siamo fermi al problema che critici e curatori non studiano l’estetica mentre i filosofi arrivano a malapena a Cézanne?
Tu stesso, nel propormi questa domanda, chiami in causa il “professionismo”. Probabilmente è proprio la specializzazione a consolidare una recente tradizione che mantiene in territori poco dialoganti le dinamiche dell’arte e i tempi e i modi della riflessione filosofica.
L’Italia è, fra le tante cose, anche il Paese dei festival. Per l’arte c’era quello di Faenza, che però è durato poco. C’è stato il Forum di Prato, ma era il più classico esempio di appuntamento autoreferenziale, come ha notato Andrea Cortellessa, per dirne uno. Pensi che un appuntamento del genere avrebbe senso?
Credo che i festival propongano una formula interessante per quelle discipline che si esercitano prevalentemente nell’atto di parola o in un’azione performativa o comunque in una temporalità determinata e necessitante di un pubblico che possa facilmente riconoscere la specifica liturgia dell’incontro. Filosofia, letteratura, cinema, teatro, danza… ma un festival dell’arte mi sembra in qualche modo sempre riducibile a un festival sull’arte, con una costitutiva distanza dal proprio oggetto di attenzione, a meno di non focalizzarsi su segmenti specifici rivolti a un pubblico talmente “specialistico” da far dubitare del fatto che la definizione stessa di festival possa ben annunciare la tipologia di evento.
“Per un direttore di museo ‒ ossia per chi si occupa non solo di arte, ma del suo valore per una comunità – un personaggio come André Malraux non può che rappresentare un fondamentale riferimento”.
La tua lecture ha per titolo Museo. Luogo di apparizione delle arti. Spiegaci meglio: è una riflessione sul ruolo del museo nella storia dell’arte?
Il titolo mi è stato assegnato e io l’ho accolto con interesse, positivamente pronto ad abitare il perimetro propostomi. Il museo ha una storia recente e per molti versi inavvertita o data per scontata, ma, come André Malraux ha scritto in modo illuminante, è solo con l’apparizione dei musei che alcuni artefatti sono diventati opere d’arte. Basti ricordare il celebre inizio di Le Musée imaginaire e la considerazione per la quale un crocifisso romanico in origine non era una scultura, la Madonna di Cimabue non era un quadro, l’Atena di Fidia non era una statua. Mi interessa capire come il museo non si limiti a ospitare, ma costituisca l’opera d’arte.
Uno dei tuoi riferimenti teorici (ma anche molto pragmatici!) durante la conferenza è appunto André Malraux. Ci ricordi perché ha avuto un ruolo così importante, anche e forse soprattutto da politico, in Francia?
Malraux è stato un grande intellettuale, uno scrittore straordinario, un uomo di grandi visioni che ha compreso nel modo più profondo il senso delle istituzioni. Il suo sapere si è esercitato tanto in campo teorico quanto nell’azione politica. Puoi capirmi se ti dico che per un direttore di museo ‒ ossia per chi si occupa non solo di arte, ma del suo valore per una comunità – un simile personaggio non possa che rappresentare un fondamentale riferimento.
Se pensiamo a un museo, lo immaginiamo come un contenitore neutro, magari il classico “white cube”. Però, al di là delle sue qualità architettoniche, l’impianto stesso della conservazione, dell’allestimento, della programmazione ecc. lo rende tutt’altro che neutro. Il museo costruisce almeno in parte la narrazione dell’arte, non si limita a ospitarla acriticamente. Domanda da un milione di dollari: qual è a tuo avviso il ruolo “corretto” che deve avere un museo d’arte contemporanea?
Non credo sia una questione di “correttezza”, ma di una necessità alla quale ci hanno obbligato gli artisti. A differenza di qualsiasi altro tipo di museo, quello d’arte contemporanea è stato sollecitato dalla propria specifica disciplina, perché l’arte ha agito anche contestando il museo, decostruendolo, usandolo come materiale, sfondandone i perimetri concettuali e i limiti architettonici, utilizzando spazi, tempi e modi che non ci consentono più di concepire un neutrale contenitore-classificatore.
L’artista ha esibito una coscienza del ruolo del museo che il museo stesso non può più ignorare nella sua vocazione alla “contemporaneità”: è stato oggetto dell’Institutional Critique e, laddove il suo Es è stato toccato, non potrà che tendere alla propria consapevolezza, all’Io del museo. E questo non passa attraverso la correttezza di formule, ma proprio nel riconoscimento di condizioni, convenzionalità e pratiche consolidate che sollecitano la nostra attenzione su ogni processo, funzione o contingenza in cui opera il museo, scoprendo, magari, che anche una semplice didascalia diventa una parziale e determinante mediazione linguistica dell’opera o che l’attività didattica rischia di banalizzare l’arte se la riconduce a livello di significati espressi.
Un’ultima domanda per declinare un aspetto particolare di quanto abbiamo discusso poco fa. Il rapporto fra artista (non opera d’arte) e museo come è cambiato nel tempo? Gli Anni Settanta sono stati uno snodo importante con l’Institutional Critique, come giustamente dicevi, e grazie a essa abbiamo imparato a pensare in maniera critica la politica museale. Cosa resta di quella riflessione?
Diverse questioni in diversi contesti, ma in generale mi pare che oggi si assista a quella ciclica nemesi per la quale l’azione contestataria venga a sua volta istituzionalizzata ed ecco emergere le varie strategie di archiviazione, storytelling, documentazione che caratterizzano molti musei d’arte contemporanea. E gli artisti più giovani, consapevoli di ciò, mi pare che accompagnino spesso in tempo reale la propria creatività con il controllo delle forme di percezione, comunicazione, conservazione dei propri gesti, fino a far coincidere la propria opera con queste stesse pratiche talvolta autenticamente ossessive.
‒ Marco Enrico Giacomelli
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