“Chiudi gli occhi, respira e immagina un mondo in cui il progresso tecnologico ed economico ha permesso alla società di liberarsi dalla schiavitù del lavoro” sono, riassunte e parafrasate, le parole con cui la voce di John Mongiovi ci accompagna attraverso un percorso di meditazione guidata nella mostra di Danilo Correale (Napoli, 1982) da Art in General. Le due stanze della nuova sede a Dumbo dello storico non profit si trasformano in una specie di spa del futuro, un luogo in cui abbandonarsi alla fantasia di un mondo in cui i ritmi non sono più dettati da sveglie od orologi ma dai cicli naturali e dal proprio tempo.
In questa mostra tratti l’argomento della possibilità di un mondo post-lavoro. Come ti sei avvicinato a questa tematica?
Direi in maniera del tutto naturale, siamo una generazione di transizione tra due grandi narrative, tra il conflitto e il futuro, il presente viene interpretato con ansia e desiderio di riparare gli errori del passato ma abbiamo perso la strada e la capacità di immaginare l’utopia. Il discorso del post-work è quanto mai attuale in questa frattura nella quale il lavoro è diventato per lo più una leva elettorale di un certo tipo di politica, e il potenziale tecnologico è già abbondantemente sufficiente a fare il salto verso un’automatizzazione dei processi di produzione. Il problema è la transizione, e il legame culturale con una certa retorica del lavoro come necessario alla crescita dell’individuo. Le opere presentate in mostra parlano proprio di questo. Come artista e cultural producer credo sia una priorità quella di affrontare le inquietudini del presente.
La mostra è un’esperienza immersiva in cui il visitatore diventa parte integrante dell’opera. Che tipo di effetto vorresti avere su chi visita la mostra?
Non credo mi interessi alcun effetto in particolare. Sicuramente una reazione che sia anche solo quella di suggerire o provocare un esercizio di immaginazione.
Ci sono artisti o filosofi a cui ti sei ispirato nello sviluppo della mostra?
Ci sono quelli che mi accompagnano da tempo: Duchamp, Lazzarato, Virno, Russel, Tronti, Matarrese, Stilinovich fino a Balestrini e Silvia Federici. Qui però ho dovuto fare un salto in un territorio più opaco, quello della teosofia e di una certa spiritualità laica. Sicuramente è stato importante il dialogo con colleghi artisti a New York e l’incoraggiamento di Chiara Fumai con la quale ho trascorso tutto l’inverno, durante la fase produttiva di questo lavoro. È stato importantissimo e non lo dimenticherò mai.
Percepisci la mostra come un’installazione unica o come dei corpi di lavori separati?
At the work’s end è una commissione che ho ricevuto da Art in General finalizzata a presentare al pubblico newyorkese Reverie. On the liberation from work. Si tratta principalmente di un’opera sonora incisa su vinile che in questa mostra si è espansa in diverse forme. Qui Reverie diventa un’installazione spaziale composta di vari elementi che includono un video, delle chaise longue e una grande opera su tessuto. Ci sono poi due dipinti della serie A Spectacular Miscalculation of Global Asymmetry.
Nella mostra esponi anche due opere pittoriche, un approccio inusuale nel tuo lavoro. Come ti sei avvicinato alla pittura e come si collocano questi lavori nella tua pratica artistica?
Ho lavorato a questo corpo di opere in maniera del tutto naturale e parallelamente a Reverie, ragionando sui miei precedenti progetti, come ad esempio FIVE HUNDRED FORTY EIGHT, che speculano sulla creazione di poesia attraverso il confronto non normativo dei dati statistici. Anche qui il testo è centrale e la superficie pittorica funzionale a esso.
In questa installazione è molto importante il dialogo tra le opere e lo spazio, e la mostra si espande anche all’esterno con l’utilizzo della luce che filtra dalle vetrate come opera aggiuntiva. Come hai sviluppato questa relazione con lo spazio? Era già voluta quando hai pensato alla mostra o si è sviluppata in fase installativa?
La progettazione della mostra è stato un lavoro di molti mesi nel quale ho ragionato su come fornire al visitatore un’esperienza totale, quasi spirituale, dove colori suoni e immagini convivessero in maniera funzionale. At the work’s end richiede al visitatore una fruizione lunga e attiva, per me era importante creare un dispositivo di resistenza che alterasse la percezione del tempo e che si opponesse a una concezione capitalista dove il tempo è valore solo quando consuma qualcosa lasciandola alle sue spalle. Il linguaggio ipnotico riesce davvero a infiltrarsi in maniera profonda nello spettatore.
‒ Ludovica Capobianco
New York//fino al 9 novembre 2017
Danilo Correale – At work’s end
ART IN GENERAL
145 Plymouth Street
Brooklyn, NY 11201
www.artingeneral.org
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