“Un buon edificio migliora la città e i suoi abitanti”. Lo sostiene da sempre Renzo Piano e senza dubbio lo conferma il cosiddetto “effetto Guggenheim Bilbao”. In vent’anni, celebrati nel 2017, il museo progettato dall’architetto Frank Gehry ha cambiato le sorti economiche, culturali e turistiche non solo di una città, ma di un’intera regione di Spagna.
Il Guggenheim di Bilbao nasce infatti agli inizi degli Anni Novanta per iniziativa di un consorzio pubblico locale (Comune, Provincia e Comunità Autonoma) come parte di un piano di recupero urbano della capitale basca, che in quegli anni soffriva della crisi dell’industria locale ed era immersa nel decadimento dell’area intorno alla Ría, il fiume, un tempo attivissimo porto commerciale e ora al centro di un grande piano urbanistico firmato Zaha Hadid.
Scorrendo le immagini di allora e quelle di oggi, la città appare letteralmente trasfigurata. Lo scintillante e monumentale edificio di Gehry, con i capolavori site specific che lo circondano, ha davvero favorito la rinascita di Bilbao, generando benessere con la cultura e forse anche contribuendo al tramonto della minaccia terroristica. I numeri, del resto, parlano chiaro: in un ventennio il Guggenheim Bilbao ha attratto più di 19 milioni di visitatori, di cui il 61,32% stranieri (il 17,70 % francesi); 95 le mostre temporanee, delle quali 25 hanno avuto un’affluenza superiore ai 500mila visitatori (la rassegna intitolata a Andy Warhol nel 2016 detiene il record di 820mila presenze); 9mila, invece, le persone coinvolte nei progetti pedagogici ed educativi. Una settantina in tutto le presentazioni della collezione permanente.
Dei miracoli dell’arte abbiamo parlato con Juan Ignacio Vidarte, direttore generale del Guggenheim Bilbao: un manager allo stato puro, che ha guidato, a partire dalle fondamenta dell’edificio di Gehry, l’ambizioso progetto della capitale basca. E che presiede la fondazione pubblico-privata che oggi gestisce il museo, il quale, a sua volta, è parte della fondazione americana intitolata a Solomon Guggenheim.
L’INTERVISTA
Il Guggenheim è stato un buon investimento in termini economici per Bilbao e i Paesi Baschi?
Oggi possiamo dire di sì. Agli inizi, però, il museo fu visto dalla comunità locale come un progetto di rottura: non si sapeva che impatto avrebbe avuto sulla città; l’edificio aveva più detrattori che sostenitori. Ci sono stati momenti complicati.
Per esempio?
Nel 1997, a un mese dall’inaugurazione, un poliziotto basco fu ucciso mentre sventava un attacco terroristico di Eta contro il museo. Oppure dopo l’11 settembre, con la grande crisi internazionale del turismo, il crollo di visitatori stranieri fu notevole.
E per quanto riguarda i ricordi più belli?
Senza dubbio il giorno dell’inaugurazione. Il 19 ottobre del ‘97, qualche minuto prima delle dieci del mattino, sulla scalinata del museo c’era già un’enorme fila in attesa dell’apertura delle porte. Un momento magico fu poi nel 2005, con l’installazione delle sculture di Richard Serra nella galleria al pianterreno: una tappa fondamentale per la maturità del museo.
Perché cambia con tanta frequenza l’allestimento della collezione permanente? All’inizio c’era un’alternanza maggiore, per dare dinamismo al museo. Oggi la tendenza è dare invece più stabilità, offrire cioè l’opportunità di vedere o di rivedere spesso i grandi capolavori, come i Rothko, o gli Yves Klein [in collezione oggi ci sono 130 opere di 74 artisti ‒ dalla seconda metà del Novecento ai giorni nostri, molti americani ma anche spagnoli e baschi ‒ valutate circa 729 milioni di euro, ossia sette volte di più dell’investimento iniziale di 110 milioni di euro, N.d.R.].
Cosa si può fare oggi, dopo vent’anni, per stimolare il pubblico e per migliorare la qualità della visita?
Le reti sociali e le più moderne tecnologie possono stimolare l’esperienza diretta con l’arte. Community, per esempio, è una rete di affetti creata per attrarre tutti quelli che hanno interesse nel museo. Basta iscriversi attraverso il web e si accede a eventi riservati, incontri, promozioni e molte altre attività.
‒ Federica Lonati
Articolo pubblicato su Grandi Mostre #6
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