La performance fa tappa a Salonicco. Intervista a Filippo Berta
In occasione della sesta Biennale di Salonicco, è andato in scena il Festival della Performance, che ha coinvolto personalità di fama internazionale. Fra cui anche Filippo Berta, che ha raccontato il suo lavoro in questa intervista.
All’interno della sesta edizione della Biennale d’Arte Contemporanea di Salonicco si è svolto il Festival della Performance, organizzato dal Museo Statale d’Arte Contemporanea (SMCA) e sostenuto dal 52esimo Festival Dimitria.
Il Festival della Performance, seguendo il ritmo della Biennale, ha sviluppato un campo aperto di sperimentazione e un’attenta riflessione attorno all’effimera pratica performativa, promuovendo e mostrando le ultime attività corporee ed esperienziali legate a tale linguaggio artistico. Quest’anno, ispirandosi al titolo generale della Biennale, Imagined Homes (Case Immaginate), gli artisti del festival si sono confrontati sulle incertezze socio-politiche della nostra epoca, innescando diversi processi di percezione della società e un’insolita considerazione attorno al concetto di casa, suggerendo nuovi modi di intendere familiarità e coesistenza, confini e discriminazioni.
Durante le otto giornate dedicate alla performance, dal 13 al 21 ottobre 2017, si sono alternati artisti di diversa provenienza: Lanfranco Aceti, Maria Jose Arjona, Filippo Berta, Fuku Cosmonaut, Paraskevi Frasiola, Geoetica del Gruppo, Efthimis Theou ‒Electra Angelopoulou, Julie Tolentino, VestAndPage.
Inoltre, fino alla chiusura della Biennale, la mostra Siluetas de Alma, organizzata presso il Museo Statale d’Arte Contemporanea, renderà un omaggio speciale ad Ana Mendieta, illustrando l’importante ruolo rivestito dall’artista cubana nella storia dell’arte femminista.
Tra gli artisti invitati al festival, il bergamasco Filippo Berta (Treviglio, 1977), oltre ad aver presentato, lo scorso 15 ottobre, la sua nuova performance dal titolo A nostra immagine e somiglianza, lascerà nello stesso spazio dell’azione ‒ ÜBERΝΤΟΥΖ a Salonicco ‒ fino al 12 novembre, una traccia importante, che mostra e racconta al pubblico della Biennale la sua azione performativa e i suoi simboli.
Ci siamo fatti inviare il video e raccontare dall’artista questo suo nuovo lavoro.
L’INTERVISTA
Come nasce quest’azione performativa?
Il lavoro è una riflessione sull’esigenza collettiva di elevare un nostro simile a una condizione predominante e di dominio pubblico. Questo processo ha generato nella storia molteplici immagini iconografiche (politiche e religiose), in cui sono “imprigionate” figure paterne o materne rassicuranti. A questo punto, possiamo chiederci se questa nostra attitudine è una forma di schiavitù dalla quale non riusciamo a sottrarci, forse proprio perché l’essere umano è il confine posto tra l’ordine del sovraumano e il disordine del corpo.
Come si è svolta all’interno della Biennale di Salonicco?
Nello specifico, la performance realizzata per la sesta Biennale di Salonicco ha visto un gruppo di persone in punta di piedi fissare un chiodo al muro con un martello, in modo da raggiungere l’altezza massima concessa dai loro corpi, per poi appenderci dei crocifissi identici, rendendo così visibile una linea irregolare: limite invalicabile che definisce un sopra e un sotto. Infine, tutti i performer partecipanti hanno osservato dal basso il crocefisso appeso nel punto massimo concesso dai loro limiti corporali. Questa situazione è divenuta la metafora del desiderio di ottenere quella perfezione opposta alla dimensione corporale, spesso definita imperfetta dalle ideologie religiose. Al termine, le luci spente della sala hanno offerto al pubblico questa immagine su cui riflettere.
Come hai selezionato i performer per questo nuovo lavoro?
In genere preferisco occuparmi personalmente della ricerca delle persone da coinvolgere nelle mie performance, in modo da creare con loro una relazione profonda. In questo caso, per motivi logistici legati all’organizzazione della Biennale, se ne sono occupati i curatori della manifestazione, Theodore Markoglou ed Eirini Papakonstantinou, i quali hanno fatto un ottimo lavoro. Ovviamente abbiamo organizzato un incontro con tutti i partecipanti, in modo da creare il feeling necessario per la buona riuscita del lavoro.
Chiodi, martelli e crocifissi sono gli oggetti utilizzati dai performer. C’è un legame tra questi simboli sacri e le persone coinvolte?
Assolutamente sì. Sono elementi che mettono in comunicazione spiritualità e materialità, divino e umano. Questi dualismi sono l’elemento fondamentale della performance.
Cos’è per te la “casa” nel contesto socio-politico attuale e qual è la relazione tra il tema della Biennale e questa performance?
Nel contesto socio-politico attuale, il concetto di casa sta diventando una forma di ideologia utilizzata per stabilire dei confini che definiscono un ‘Noi’ e un ‘Loro’. Questa è una vera manna per i fanatici e i politicanti, i quali usano questa tendenza come un carburante prezioso per imporre ideologie politiche e religiose, che limitano l’evoluzione della società umana. Come ho riflettuto con i curatori, questa performance s’inserisce nel tema della Biennale perché rientra nell’insieme dei gesti familiari e quotidiani che avvengono fra le mura domestiche. I membri della famiglia sono costantemente osservati da simboli religiosi o politici, che diventano i mentori di uno status di riferimento opprimente. Ciò significa che i miti servono per mantenere il popolo nella mediocrità, già a partire dalla dimensione intima della famiglia.
Come in altri tuoi lavori performativi, le persone coinvolte generano forme regolari, semplici e precise. Questa peculiarità ha solo uno scopo formale o nasconde aspetti più complessi e articolati?
Sì, vero. In questo caso la forma di riferimento è una linea che rivela nella sua imperfezione le singole peculiarità delle persone coinvolte. Infatti, ogni individuo definisce un punto di questa linea con il limite massimo raggiungibile dal proprio corpo. Il risultato finale è una barriera invalicabile formata da tanti limiti corporei.
Ogni azione performativa ha il limite della durata: un inizio e una fine. Che cosa hai lasciato in mostra per il pubblico che non era presente al momento dell’azione?
Nello spazio è rimasta la traccia lasciata dall’azione collettiva, vale a dire lo skyline di crocifissi identici appesi ad altezze differenti, e il video che documenta ciò che è accaduto e ha prodotto tale risultato. Sottolineo l’importanza del sonoro del video: il rumore provocato dai martelli. Questo frastuono riempie lo spazio diventando eco della stessa azione collettiva.
‒ Giovanni Viceconte
Salonicco // fino al 14 gennaio 2018
Sesta Biennale di Salonicco
SEDI VARIE
http://biennale6.thessalonikibiennale.grSalonicco // fino al 12 novembre 2017
Filippo Berta ‒ In our Image and Likeness
ÜBERΝΤΟΥΖ
Danaidon 8
www.facebook.com/pg/ubr12/about/?ref=page_internal
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati