Apparenti simulazioni. Intervista a Sergio Racanati
Da una residenza d’artista a 4.500 metri di altitudine sull’Himalaya a un festival cinematografico a Barcellona. Alla vigilia della prima proiezione del suo film, abbiamo incontrato e intervistato Sergio Racanati.
Ci racconti brevemente il tuo percorso e come ti sei avvicinato sia alle pratiche performative che a quelle filmiche?
Il nucleo tematico del mio percorso artistico è stato da sempre l’approfondimento e l’analisi delle pratiche creative afferenti al contesto urbano, sociale, politico e architettonico. I miei progetti coinvolgono i temi della sfera pubblica, i comportamenti politici delle comunità, i rapporti tra memoria individuale e memoria collettiva, tematiche che affronto con gli strumenti di alcuni linguaggi artistici come performance, situazioni, installazioni, video, film. A questi devo aggiungere il corpo, fondamentale dispositivo sociale e politico. Direi che questo è il motivo per cui, più che essermi avvicinato alle pratiche performative e filmiche, utilizzo queste pratiche come possibili display atti a registrare, delineare e trasferire parole, pensieri, discorsi e ricerche che ho intrapreso. Vorrei chiamarli flussi di consapevolezza o bagliori!
Quando parli di contesto, penso alla tradizione italiana: visivamente il paesaggio, politicamente il territorio…
Per me il territorio non è semplicemente una definizione geografica. È una costellazione di interazioni tra l’uomo e la natura antropizzata e non. È anche la nostra proiezione in un determinato contesto; è il risultato acrobatico di sistemi multipli e su scale diverse di relazioni sociali, politiche, emotive e quindi etiche. Da qui partono tutta una serie di derive e riflessioni che entrano all’interno della mia ricerca artistica, come le autoproduzioni, i meccanismi di conflitto con le istituzioni di potere, l’archivio, l’immaginario collettivo. Riflessioni che partono e approdano a delineare e intendere il corpo come political agent.
Descrivici il tuo rapporto tra corpo, pratiche performative e schizofrenia globale.
Il linguaggio che prediligo e dal quale faccio scaturire tutta una serie di formalizzazioni è la performance, che da un punto di vista fenomenologico e semiologico definirei come “uno sciame di azioni concatenate in un continuum di creazioni e di dissolvenze in un tempo-spazio sospeso tra il quotidiano e l’extra-quotidiano”. Contemporaneamente, credo anche nello sconfinamento linguistico e mediatico; sono propenso al cross-media. Definirei inoltre la mia metodologia relazionale come ricerca-azione di dispositivi in cui la presenza umana è predominante con tutte le sue forze e le sue debolezze. È una ricerca rivolta a indagare il senso dell’imminente, dell’urgente, del contingente, e in questo processo creativo la restituzione estetica è priva di retorica, priva di obblighi didascalici che debbano accompagnare mano nella mano l’interlocutore, o meglio l’audience.
Quale la mostra o l’operazione più significativa nel tuo percorso?
I miei ultimi due progetti! 0XXL, progetto artistico realizzato durante la residenza artistica presso il Museo Pino Pascali, e [VLEN] a cura di Giusy Caroppo. Entrambi i progetti li ho definiti “il ritratto di un percorso esistenziale, la fotografia di una vita intera, percorsa da una moltitudine che raccoglie sotto la lente di un caleidoscopio soggettività multiple, simmetriche e irregolari che vivono all’interno dello sciame inquieto del quotidiano”. Ma sono profondamente legato anche al progetto RESILIENT, operazione corale che ho attivato con il collettivo le Macerie Baracche Ribelli, curato da Mariapaola Spinelli e successivamente selezionato per la sezione Pre-Occupied alla Biennale di Berlino 7, curata da Jocelyn Parr + Samara Chadwick.
E quale la mostra o l’operazione più significativa che in generale trovi importante nella storia dell’arte contemporanea?
La mostra più importante è Multinatural Histories a cura di Marcus Owens e Olivier Surel presso l’Harvard Museum of Natural History, in cui ho realizzato il progetto WhereisMyLand.
L’operazione più significativa nella storia dell’arte contemporanea è la vita stessa che si scompone e ricompone continuamente, che utilizzando un’espressione mutuata dal linguaggio di mio padre: “È la strada!” Luogo e tempo in cui si compiono in simultanea la meraviglia e la devastazione della vita.
Parlaci del tuo ultimo progetto a cui stai lavorando, della residenza da cui è nato e del festival in cui sarà proiettato.
La creazione del film dal titolo līlā è avvenuta nella Valle di Parvati, nel villaggio di Kalga, India, a 4.500 metri di altitudine sull’Himalaya, durante la residenza sperimentale Kyta curata da Shazeb Sherif. Sono stato invitato a presentare il film in prima internazionale nella sezione Discoveries all’Asia Film Festival a Barcellona, diretto da Menen Gras Balaguer [il film sarà presentato l’11 novembre alle ore 12, N.d.R.].
Il sostantivo femminile sanscrito līlā indica “gioco”, “distrazione”, “passatempo”, “grazia”, “fascino” ma anche “mera apparenza”, “simulazione”. Secondo la tradizione induista sottintende la spontanea venuta a essere manifestazione dell’universo e del suo dissolvimento. Avere a che fare con līlā, così come avere a che fare con il “gioco del mondo”, porta uno sconvolgimento inevitabile. līlā è rivolto alla dimensione dello spazio e del tempo sociale, ai sistemi di potere e di persuasione che le forme del visibile o dell’invisibile esercitano nel quotidiano. Il film, inoltre, esplora delle narrative insite nella comunità e auspica un possibile modello di fruizione del territorio producendo un corto circuito tra localismo e (post)globalismo. Il film è composto da azioni in dissoluzione, discrezione, dilatazione e dissolvenza.
Cosa pensi del formato delle opere ? Perché hai deciso di misurarti con piccole azioni piuttosto che condurre operazioni di land-marker monumentali? Qual è, a tuo avviso, il formato ideale nel contesto contemporaneo, e perché?
Mi piacerebbe poter porre l’attenzione più che sul formato, inteso come unità di misura, sulle diverse scale di intensità degli smottamenti del nostro tempo/spazio post-globale fluido, soggetto a costanti fratture, frizioni, interrelazioni e riconfigurazioni. Non credo ci sia un formato ideale con cui realizzare delle opere contemporanee. Il mio formato si configura e riconfigura in un costante divenire tra precarietà, indeterminatezza e transitorietà.
Sicuramente nella mia ricerca ho messo in atto lo scavalcamento e la contestazione radicale del concetto e delle progettualità dei land-marker monumentali. Mi interessa creare e tessere micro-relazioni tra chi resta e chi parte, tra chi è accolto e chi accoglie delineando una concezione di arte politica intesa come “politica del sottile”. Sono a favore dell’incremento diretto, dell’orizzontalità, della reticolarità e della decentralizzazione come proposte alternative alla presenza di meccanismi imposti dall’alto senza il confronto e l’inclusione delle comunità che vi vivono sia in modo transitorio che permanente nei luoghi.
Quali film maker o performer ti piacciono nel contesto italiano? Quali in quello internazionale?
Non amo fare classifiche o nomination – così giusto per essere trendy e per essere dentro il linguaggio pop dei reality. Non amo fare nazionalismi o essere a tutti i costi esterofilo.
Mi interessano la qualità, l’autenticità. Due caratteristiche ormai quasi del tutto perdute nell’oceano del mordi-e-fuggi, della bulimia produttiva di eventi, di mostre, di presentazioni. Sono disgustato da questo scenario privo di autenticità! Siamo dentro la ripetizione logaritmica del fake, di estetiche vuote, di depredamento di qualsiasi possibile immaginario. Anche l’immaginario più sovversivo, la divorante macchina del capitalismo lo sussume per crearne un prodotto da inserire nel tumulo e nella definizione di “impresa culturale”. Siamo, oserei dire, dentro la “disfatta della cultura”!
– Sonia d’Alto
http://asianfilmfestival.barcelona/2017/
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