Sapere è ballare. Il Piper di Torino rivive ad Artissima
La curatrice Paola Nicolin racconta il suo “PIPER. Learning at the discotheque”. Un progetto attivo all’Oval Lingotto già a partire dai giorni di allestimento di Artissima. Nelle giornate della fiera, attraverso incontri con artisti e curatori, ogni sessione sarà dedicata a un tema, a un’opera-guida, seguendo l’immaginario della discoteca.
Dalla riflessione sul Piper Club di Torino, aperto dal 1966 al 1969 e progettato da Pietro Derossi con Giorgio Ceretti e Riccardo Rosso, Paola Nicolin sviluppa, dal 2 al 5 novembre all’Oval Lingotto, un palinsesto di incontri che, a partire dall’immaginario di uno spazio non istituzionale per l’arte contemporanea come il Piper, vogliono trasmettere e generare nuova conoscenza.
A proposito del Piper, l’architetto Pietro Derossi (Gruppo Strum) ricorda: “Oltre ad aver progettato e al veder costruito questo spazio, insieme all’architetto Ceretti (che allora lavorava per Main Studio), ho avuto anche la soddisfazione di averlo gestito con mia moglie Graziella. In questo luogo tutte le arti venivano rappresentate. Da Carmelo Bene che recitava Majakowskij al Living Theatre, l’Open Theatre di New York, tutti gli artisti dell’Arte Povera, da Pistoletto a Gilardi a Merz. Tra gli altri avevamo invitato anche Schifano a realizzare una mostra. Ma lui ci rispose che avrebbe preferito mandare una band e così si costituirono le Stelle di Schifano. Un gruppo molto bravo che ha suonato al Piper per qualche mese. Ogni giorno c’era sempre un happening diverso”.
Abbiamo incontrato Paola Nicolin per farci raccontare la sua iniziativa.
L’INTERVISTA
Il progetto che realizzi per Artissima, come the classroom, intreccia le ricerche radicali inglesi e americane della seconda metà degli anni Sessanta, ma esattamente quale bacino temporale sceglie di rievocare e per quale motivo?
In verità la storia è più semplice: Artissima mi ha inviato a curare il programma del talk con artisti e curatori e di tenere conto dei cinquant’anni della nascita dell’Arte Povera che la direttrice aveva desiderio di rievocare liberamente in questa sua prima edizione. Da qui la proposta di lavorare sull’importanza dei contesti, su un contesto particolare come il Piper Club – o Pluri Club ‒ e di conseguenza articolare il programma curatoriale di the classroom attorno a questo luogo. L’intreccio delle ricerche radicali inglesi e americane è qualcosa che appartiene al pensiero progettuale e alla storia di Pietro Derossi che disegna il Piper e lo gestisce dal 1966 al 1969 con la moglie Graziella Gay e con amici artisti.
Tutto questo come si traduce nel programma?
Il programma – che prevede un corso di Seb Patane, una rielaborazione dell’archivio del Piper attraverso il lavoro di Superbudda, più una serie di conversazioni e la film commission con Rä di Martino – non sceglie alcun bacino temporale, piuttosto abbraccia una pluralità di tempi, forme e linguaggi che per identità o differenza guardano alla discoteca come immaginario possibile. Ci sembra interessante allora ragionare in termini di futuro, pensando ai fenomeni dell’informazione e tecnologia, alla dimensione del gioco, l’architettura come avvenimento, la conversazione come oggetto di scambio.
Hai affermato che “il Piper rimane ancora oggi un modello internazionale di spazio non istituzionale per l’arte contemporanea, non una semplice discoteca ma un vero e proprio centro culturale autogestito”. Perché sei partita dalla rievocazione e dalla configurazione di questo luogo per innescare un modello di estetica d’interazione?
Più che innescare direi solo intercettare un fenomeno che forse sta passando – o è già passato – dalla condizione dell’underground a quella del mainstream e raccontarlo. Che la discoteca sia un contesto sperimentale, di ricerca, di produzione, di innovazione tecnologica tanto quanto comportamentale non è una novità, la novità forse è quello di raccontarlo.
Che cosa hai aggiunto?
Il contesto era necessario: andava ricostruito giocando sulle resistenze di queste due facce della luna, senza essere filologici e definitivi ma vivendo positivamente quella velocità della fiera d’arte che ti permette di intercettare un racconto e portartelo a casa per farlo “tuo”. Il fatto è che ci siamo accorti che in nessuna fiera è mai stata costruita una discoteca – che funziona intendo, dove puoi ascoltare musica, bere un drink, sederti a chiacchierare in un angolo semi buio e farti delle confidenze o partecipare a un evento collettivo. In questo senso proviamo a vedere che cosa succede in questo luogo.
Dall’Archivio Pietro Derossi alla speciale partecipazione di Gufram, dalla collaborazione con Superbudda alla digitalizzazione documentale del Centro di Conservazione e Restauro La Venaria Reale, per arrivare a F/ART, potresti descrivere l’esperienza interlocutoria con parti così diverse tra loro?
A me non piace lavorare da sola. Non mi è mai piaciuto perché penso al lavoro come a una occasione di crescita nel mondo – e dunque con le persone. Nel tempo ho imparato che insieme davvero si fa meglio e di più, perché vai a velocità diverse, vedi crescere l’idea nella testa di più persone, gestisci il cambiamento e capisci che la diversità è una ricchezza – anche se è chiaro che si fa fatica a conciliare tutto e tutti. Però alla fine vince sempre un fatto: istituzioni e aziende, pubbliche e private, sono fatte di persone che vanno conquistate con lealtà e passione. Da qui parte e arriva tutto e tutto da qui si può fare.
Secondo quali modalità il Piper, luogo della memoria riattualizzato, tra design e arte, sarà in grado di valorizzare inattese capacità didattiche, educative e interdisciplinari? Come sai, il margine di imprevedibilità dei corsi di the classroom è altissimo. E davvero non ti so rispondere. Il Piper è però già stato un catalizzatore di capacità e progetti, forse anche proprio per la sua intensità, velocità sincopata (la cronologia degli eventi succedutisi in due anni è impressionanti). Derossi lo costruisce in piena epoca di protesta studentesca e ne parla spesso. “Negli Anni Sessanta”, scrive “si sviluppa la rivolta nell’università di Berkeley (Stati Uniti, California) e pochi anni dopo il Maggio francese in cui in tutte le università iniziano accese discussioni e manifestazioni, rivendicando nuovi modelli di insegnamento e di vita. Questi nuovi modelli trattavano dei modi di stare insieme, non solo con una revisione del modo di lavorare, ma di tutte le attività di relazione tra cui il ballo, il teatro, il cinema e l’arte in generale. È in quella situazione generale che le discoteche sono state interpretate come luoghi possibili per sperimentare concretamente nuovi comportamenti…”.
E per quanto riguarda il presente?
I tempi sono profondamente diversi, a me paiono imparagonabili per mille ragioni. Forse l’unica relazione possibile ha a che fare con alcune questioni aperte e riscontrabili anche negli ambiti dell’educazione: isolamento, conformismo, diversità, studente vs classe, tendenza vs resistenza, immaterialità vs oggettualità… Quanto la qualità dello spazio dove lavoriamo (e impariamo) influisce sul come lavoriamo (e impariamo)?
Come opererà Seb Patane?
Seb Patane ha studiato un corso formidabile dove la combinazione tra la sua sensibilità, il contesto e il sapore di retro-futuro che il Piper ispira è proiettata verso il futuro. Sessioni più teoriche, dove l’artista discute, presenta e decostruisce il tema e alcuni dei suoi lavori mostrati agli studenti accanto ad analisi di lavori di altri, presi come fonti ma anche come oggetti trovati – e dunque inizio di un’altra storia possibile. Join us!
Potresti esprimere un augurio o un pensiero che accompagni questo nuovo ambiente all’Oval?
Ballachetipassa.
‒ Ginevra Bria
www.artissima.it/site/learning-at-the-discotheque/
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