Dialoghi di Estetica. Parola a Silvia Mariotti
Artista, Silvia Mariotti pone al centro delle sue ricerche il rapporto con la natura e la riflessione sul nesso luce e ombra e sulle influenze letterarie e poetiche nella pratica creativa. Di formazione pittrice, ha studiato presso l’Accademia di Belle Arti di Urbino e ha ampliato la sua ricerca attraverso l’uso della tecnica fotografica. In questo dialogo ci siamo soffermati sul rapporto tra fotografia e natura, sull’interesse per la dimensione notturna, sulla dimensione narrativa e simbolica, sul ruolo dell’interpretazione e della verità nelle sue opere.
Sono interessato al rapporto tra fotografia e natura. Tu ti servi della prima per sviluppare la tua ricerca sulla seconda. Tra le due, pensi sia possibile stabilire un equilibrio?
Per me si tratta essenzialmente di lavorare sullo scorrere del tempo, concentrandomi in particolare sulla luce. Nell’ultimo periodo sto lavorando quasi nella completa oscurità, o meglio, su quantità luminose minime che mi permettono di mantenere costante il riferimento al mondo notturno. Sono particolarmente interessata alla dimensione della notte, perché in essa ci costringiamo a uno sguardo più profondo e, nonostante qualcosa rimanga celato, si disvelano comunque delle verità. In un determinato intervallo temporale la luce mostra e al contempo racchiude qualcosa. Un equilibrio è dunque possibile in base all’esperienza che tento di restituire, per arrivare a una forma.
La centralità della dimensione luminosa, e di un tempo per la sua ricezione, sono però solo alcuni dei fattori che determinano il tuo lavoro.
Sì, analizzo soprattutto ciò che vive attorno a me, per poi focalizzarmi sul piano sociologico o storico. Mi nutro delle suggestioni che provengono dal mondo letterario o cinematografico ma pongo sempre la natura come punto di partenza.
Perché?
La natura intesa come vegetazione e paesaggio naturale ha sicuramente un’identificazione più intrinseca, e se vogliamo ambigua, rispetto al contesto urbano, ma, diversamente da quest’ultimo, non permette di stabilire immediatamente dei collegamenti e questo favorisce, pur partendo dalla realtà, l’apertura a diverse interpretazioni. Lo scenario naturale che rappresento rimanda a una dimensione quasi astratta rispetto a una immagine ben definita e che oggettivamente restituisce qualcosa di più specifico e non in grado di spaziare.
Qual è il punto di partenza per la tua ricerca dell’apertura?
Prima di tutto, il rapporto con l’ambiente naturale: mi ci immergo, lo esploro, entro in contatto con esso cercando di coglierne le diverse dimensioni. Nei miei lavori – dalla serie Attempts ai lavori più recenti realizzati in Brasile e Amazzonia – è determinante il viaggio che compio: il mio bagaglio di esperienze e le condizioni specifiche che caratterizzano un certo luogo sono tutti fattori decisivi per rendere possibile un’apertura. Si tratta di un approccio che influenza profondamente il mio modo di lavorare sullo spazio naturale e dunque anche la successiva elaborazione delle immagini.
Il tuo modo di lavorare si traduce in una “selezione visiva”, ossia nella scelta di isolare una porzione di ambiente naturale per sottoporlo allo sguardo del fruitore.
Cerco una potenziale continuità tra l’ambiente e la sua rappresentazione; una apertura che l’immagine, seppure circoscritta, possa comunque offrire invitando lo sguardo a non fermarsi alla sua superficie. Non sono interessata alla spettacolarizzazione. Non apro l’obiettivo per catturare grandi spazi o per restituire le distanze tra cielo e terra o vasti scenari ambientali; lavoro piuttosto sulla partizione dello spazio naturale per rendere possibile un successivo ampliamento visivo.
Più il campo dell’inquadratura si restringe e più le possibilità aumentano?
L’ampliamento visivo non è immediato. Si tratta di rendere possibile una apertura lavorando anche su diverse dimensioni temporali: quella della ricezione, quella del riconoscimento e, soprattutto, quella dell’osservazione. Un lento disvelamento che allarga il limite dello spazio rappresentato. Occorre quindi prendersi il tempo necessario per arrivare all’apertura e andare aldilà dell’immagine, abituando l’occhio alla profondità notturna.
Un superamento che è dunque basato sulla tua costante riflessione, tanto sullo spazio quanto sul tempo.
Faccio sempre riferimento al tempo e allo spazio, sono entrambi imprescindibili. Lo spazio si traduce in gran parte nella rappresentazione di luoghi che permettono di mantenere un legame con il contesto di appartenenza del lavoro. Difficilmente, però, questo legame diventa vincolante. L’opera può offrire ben altro rispetto a ciò che possiamo vedere in essa e questo non vuol dire che uno spazio, uno dei luoghi di riferimento dell’immagine, diventi in qualche modo indefinito.
Tuttavia, affinché preservi la sua forza visiva, una tua opera deve conservare un certo grado di ambiguità.
In questo senso, il tempo di fruizione è un elemento fondamentale. Ci sono diversi gradi di lettura che si aggiungono a quel primo momento in cui lo sguardo, immediatamente, coglie un limite, una delimitazione dello spazio che contraddistingue una immagine. Lo sguardo si abitua lentamente alla dimensione notturna, alle sue ambiguità, ma può anche riconoscere alcune verità.
I gradi di lettura dell’opera e il riconoscimento delle verità appartenenti alla dimensione notturna rimandano anche al potenziale narrativo che contraddistingue i tuoi lavori.
Lo sguardo può accedere a una possibile apertura anche perché la chiusura dell’inquadratura apre a molteplici interpretazioni. Il potenziale di cui parli è frutto di un profondo legame tra diversi livelli narrativi. Ti faccio un esempio. Nell’opera Scogli di zinco (2015) accade qualcosa nell’ambiente notturno, tuttavia non siamo in grado di superare la chiusura di quell’evento se non grazie agli elementi che riconosciamo. A questi primi livelli – la narrazione dell’azione e la nostra ricostruzione narrativa – se ne aggiunge un altro, il riferimento letterario a Italo Calvino che però può benissimo non essere colto, lasciando perciò spazio ad altre interpretazioni.
L’apertura è perciò il frutto di una contrapposizione.
Sì, assolutamente, la considero come il risultato del rapporto che stabilisco tra il mio lavoro e l’ambiente naturale. Da una parte, la dimensione notturna diventa una specie di “contenitore” di forme, di azioni, di possibilità visive. Dall’altra, il tentativo di chi la scruta è di entrare in essa, di scoprirla e di osservare lentamente quel che accade… Il campo si ristringe, lo sguardo trova altre direzioni possibili.
Considerando le tue opere, mi sono fatto l’idea che la contrapposizione non sia legata solo al tuo lavoro sulle immagini ma anche al tuo uso dei materiali e, soprattutto, alla tua prassi operativa.
Il processo di elaborazione di un’opera, il lavoro e la scelta dei materiali per me sono fondamentali. Questi fattori risaltano, per esempio, in 10 parsec (2015), un cielo caduto che si presenta allo stesso tempo anche come un lightbox destrutturato. Conservo i suoi principali elementi strutturali – la stampa fotografica su duratrans e il neon – ed elimino il box per evitare qualsiasi costrizione formale determinata dalla cornice. Allo stesso tempo, il cielo ritratto nel frame della fotografia non sta a parete ma tocca terra.
La scomposizione che caratterizza questa tua opera rivela due aspetti che vorrei considerare meglio. Il primo è l’elemento poetico, il cielo è caduto a terra, e il suo profondo legame con il piano simbolico. Il secondo è la destrutturazione tanto del lightbox quanto del sistema espositivo che tradizionalmente lo mostrerebbe sulla parete e non per terra.
Mi piace pensare a questo lavoro immaginandomi il retro di un sipario, come se l’oggetto fosse dietro le quinte di un teatro, dove alcuni elementi di scena sono stati buttati in un angolo perché non ancora utilizzati. Rispetto al piano simbolico, immagino un gesto: quello di cogliere un manto notturno e lasciarlo cadere. Anziché portare in primo piano un riferimento storico o letterario, catturo un immaginario per tradurlo in un pensiero poetico.
Quanto influisce sulla tua ricerca la relazione tra natura e cultura?
La scelta di determinati luoghi e ambienti naturali, e quindi il loro contesto, è fondamentale nella mia ricerca, ma ho sempre bisogno di tradurre l’immagine attraverso una mia visione e rilettura, per poi procedere con l’elaborazione dell’opera e con l’atto di produzione che la rende possibile. La relazione di cui parli entra perciò nell’opera principalmente attraverso una traduzione.
Di che cosa si tratta?
Essenzialmente di due presupposti che orientano il mio lavoro: evitare di alterare i contesti dai quali nasce un’opera e cercare di restituire un senso di bellezza che non tradisca una affermazione poetica. Io seleziono scegliendo il punto che sembra inaccessibile, proprio perché, contrariamente a questa sua caratteristica, esso permette di aprire a prospettive inaspettate. Penso che la traduzione sia possibile in stretto rapporto alla responsabilità che ha un artista rispetto all’affermazione della sua poetica. Una dichiarazione che riguarda tanto il tempo che vive quanto, appunto, il suo modo di lavorare, che nel mio caso è orientato dalla ricerca della verità.
Come consideri la verità rispetto agli sviluppi del tuo lavoro?
Non come una verità assoluta. Si tratta piuttosto di una verità profondamente legata alle attitudini, al fare e alle relazioni umane. È in particolare il rapporto tra verità e comprensione o meglio, al giusto tempo della comprensione, a essere cruciale per il mio lavoro. Questa relazione riguarda perciò tanto il disvelamento quanto la consapevolezza, la possibilità di arrivare a una qualche verità, anzitutto attraverso lo sviluppo del lavoro e poi in seguito anche attraverso la sua esperienza.
Come hai affrontato la questione della verità nel tuo progetto Dawn on a Dark Sublime, che ha come soggetto le foibe?
La verità può essere raggiunta superando la dimensione soggettiva, senza però poterne fare a meno. E questo, nel mio lavoro, diventa una condizione che riguarda sia il livello della natura sia quello della mia attività e necessariamente quello della stratificazione culturale. Quando parlo di verità accedo necessariamente anche al livello politico che un’opera può raggiungere, come appunto con il progetto Dawn on a Dark Sublime.
Proviamo a soffermarci su una tua opera che potremmo considerare rappresentativa di questa impostazione.
Posso portarti come esempio Angelico, che ho realizzato nel 2015. Il suo riferimento è Il giudizio universale, la pala d’altare realizzata da Beato Angelico intorno al 1431. Al centro dell’immagine ci sono due angeli dell’apocalisse, che con il suono delle trombe accompagnano la divisione tra i beati e i dannati. La mia traduzione si sviluppa quindi nel conservare la sagoma della pala d’altare, ampliando la punta di azzurro che sta tra gli angeli fino a renderla una campitura uniforme che ricopre interamente la sagoma e, infine, dare un suono all’opera. A questo scopo, ho fatto suonare a un trombettista due colonne sonore, appartenenti alla tradizione italiana e a quella slava, trasmettendole entrambe all’unisono con le casse poste sotto alla pala. Il suono che usciva era distorto, non offriva una trama armonica. L’idea era perciò di offrire una metafora di quella che credo possiamo intendere sia come una sovrapposizione tra i giudizi, una sorta di cacofonia, sia come un richiamo anzitutto alle responsabilità umane.
Il lavoro sui materiali è dunque imprescindibile per il potenziale simbolico delle tue opere.
È così. Il lavoro non si esaurisce nel percorso che si sviluppa attraverso l’esperienza con la natura o con i riferimenti culturali, ma implica anche il modo in cui mi rapporto ai materiali. Per esempio, nelle opere della serie Aria buia, la carta cotone è stata scelta per ridare importanza anche a una componente pittorica che vorrei si conservasse e nello stesso tempo per ricreare l’atmosfera dell’esperienza vissuta, come se fossero delle finestre reali attraverso le quali guardare; questo vale anche per Angelico, la serie dei Cieli vetrati e i dark-box. La possibilità di dire qualcosa passa necessariamente attraverso l’uso di un certo materiale.
E per quanto riguarda l’ultima fase delle tue ricerche – penso in particolare al tuo recente ciclo dei Volumi notturni –, come stai lavorando su questo fronte?
Sono orientata dalla necessità di esplorare oltre la superficie dell’oggetto quadro, per accedere allo spazio tridimensionale. Sto perciò lavorando sulla possibilità di dare forma concreta alle diverse cromie appartenenti alla dimensione notturna. Si tratta di un lavoro che rende possibile la traduzione materiale di qualcosa non tangibile e che solitamente risalta nelle mie opere principalmente in termini di immagine, dunque come elemento solo visivo e non tattile. Lo sviluppo della mia ricerca va anche in direzione di quest’ultimo orizzonte, attraverso quindi la sperimentazione di opere scultoree e installative finalizzate alla costruzione di uno scenario.
‒ Davide Dal Sasso
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