Il Louvre senza il Louvre. Intervista al poeta e performer Alex Cecchetti

Mentre la museologia discute della necessaria presenza dell’opera fisica e dei rischi del digitale, Alex Cecchetti ‒ poeta e performer dello spettacolo andato in scena in al Teatro della Triennale di Milano ‒ propone, con leggerezza e potenza, senza opere e quasi senza luogo, un’esperienza magica del museo e di sé stessi. Ecco cosa ci ha raccontato.

Come sei arrivato a concepire lo spettacolo Il Louvre senza il Louvre?
Attraverso diverse strade. La prima è la poesia. Secondo uno dei precetti della Grecia antica, per divenire poeti era necessario essere in grado di far apparire, attraverso la retorica, cose che non c’erano. L’altra è una mia abitudine, quella di andare al Louvre a camminare ogni volta che devo immaginare un nuovo lavoro. Un giorno ero a Londra, per una residenza alla fine della quale dovevo presentare una performance. Non avevo idee, non sapevo cosa fare, il Louvre mi mancava e allora ho portato il Louvre a Londra. Credo che al Louvre non lo sappiano ancora.

Parli di una collezione del Louvre senza gli oggetti, evocata utilizzando il corpo, il tuo e quello di chi ti viene a vedere. Che importanza ha la relazione col corpo e con i corpi?
C’è una poesia da marinai di Juan Rulfo o è di Nicanor Parra, poeta cileno; una poesia a cui penso spesso, che dice “o si sopravvive tutti assieme o ognuno affoga da solo”, ma non credo parli solo delle barche. Le cose si fanno tutti assieme, anche una performance. Se uno rimane indietro, allora affoghiamo tutti. Questa poesia è così vicina alla mia idea di performance che spesso la ripeto come un mantra. Riguardo ai corpi, ciò che per me è importante è la comunione fra le persone che vengono a vedere cose che non ci sono. È una forma di comunione laica come quella con il fuoco. Credo Canetti ne parli in Massa e potere; il fuoco dispone in cerchio gli uomini, dice, perché al centro ci si brucia e starne troppo lontano non ha senso. Ho sempre pensato che ciascuno scelga la propria distanza dal fuoco: alcuni più vicini, dove è più caldo, altri più lontani. La figura che ne risulta è sempre un cerchio, tracciato da una geometria sensibile, tutta umana. Durante la performance provo a evocare questo cerchio, dove ognuno prende la propria distanza da me, mentre io chiamo al fuoco, attiro. È una comunione che ha a che fare con il corpo evidentemente, ma anche con la mente.

Alex Cecchetti, Il Louvre senza il Louvre, 2017. Photo © Valeria Palermo

Alex Cecchetti, Il Louvre senza il Louvre, 2017. Photo © Valeria Palermo

A un certo punto dello spettacolo, un po’ sotto traccia, dici: “La vita è troppo breve per non essere ridicoli”. Cosa significa per te?
Il ridicolo è sempre un bel momento, mettersi in ridicolo per far ridere gli altri è compiere un gesto di estrema generosità. È una caratteristica che riguarda i sentimenti più incontrollati e incontrollabili, come l’amore. Le lettere d’amore sono sempre ridicole, e se non sono ridicole non sono lettere d’amore. Il ridicolo appartiene a questi sentimenti forti e generosi. È opinione diffusa che il registro drammatico sia il più pericoloso; io invece sono convinto che siano più pericolosi i sorrisi pieni e aperti, immagina centinaia di trentadue denti scintillanti nel buio del teatro.

In chiusura della performance accompagni i partecipanti sulla scena, dicendo: “Sentite che aria fresca si respira qui” per poi condurli nella sede per loro più naturale, in galleria, e sbucare tu, subito dopo, in scena, con un “Siete stati bravi”. In questo gioco intendevi far sperimentare simbolicamente il teatro?
Lo spettacolo si apre con un gesto: provo a far apparire dal niente qualcosa dietro un drappo improvvisato, senza trucco; e chiedo a tutti di guardare e credere che si vedrà qualcosa, anche se non si vedrà nulla. Questo primo gesto è legato all’ultima tappa: fatta tutta quest’esperienza immaginifica si approda ai sedili dai quali si dovrebbe vedere qualche cosa, che ancora una volta non si vede.
Si realizza, piuttosto, che si è fatta l’esperienza di qualcosa. È il culmine di ciò che è cominciato come visione e diviene poi esperienza.

Alex Cecchetti, performance al Louvre di Parigi. Photo credit Aurélien Mole

Alex Cecchetti, performance al Louvre di Parigi. Photo credit Aurélien Mole

Andiamo al testo: tu scrivi e poi… in che misura sei fedele al testo e in che misura lasci spazio all’improvvisazione?
Scrivo e studio il testo in modo ossessivo; questo mi dà la possibilità di essere molto libero quando lo performo; per me il testo non è morto, lo studio così tanto che risorge quando lo metto in atto. Lo conosco talmente bene che posso permettermi dei voli pindarici quando voglio, atterrando poi quando lo desidero. È accaduto che mi sono schiantato a terra a volte, ma questo fa parte della generosità del ridicolo.

Ti muovi con la medesima naturalezza in italiano, in inglese e in francese. Non è complesso?
Sì, è difficile, ma mi viene con naturalezza per il semplice fatto che ho scoperto che su di me le lingue agiscono come dei personaggi; l’uso di una lingua condiziona la mia psicologia. Mi basta rifarmi al carattere che quella lingua mi suggerisce e il resto viene da sé.

Quanto lavoro di studio fai per produrre il testo?
Studio su diverse fonti: da quelle più istituzionali, come i carnet sulla Mesopotamia pubblicati dal Louvre stesso, ad altre fonti più ambigue e meno accademiche (The Origin of Consciousness in the Breakdown of the Bicameral Mind, di Julian Jaynes), sulla nascita della coscienza in epoca mesopotamica. Anni fa incontrai anche Clarisse Herrenschmidt, studiosa franco-tedesca di testi mesopotamici: dal suo lavoro ho tratto numerosi spunti. Le fonti però non si vedono, tanto sono lavorate a vivo. Se dovessi immaginare le fonti in una forma, direi che sono divenute batteri, ecco, e il Louvre è una specie di yogurt.

Alex Cecchetti, Nuovo Mondo, 2014

Alex Cecchetti, Nuovo Mondo, 2014

In un paio di circostanze, nei tuoi spettacoli, quando spieghi come afferrare il nulla, o speculi sull’arte di evitare, torna alla mente la frase di Bartleby. “I would prefer not to”.
Quando affronto il niente non è dal punto di vista di Bartleby, che pur mi piace ma trovo fin troppo massonico. Mi piace di più pensare al niente seguendo gli intrecci di certe filosofie asiatiche. Sulla morte e sul niente faccio un altro spettacolo, Tamam Shud, dove, invece di attraversare teatri per vedere ciò che non c’è, attraversiamo teatri per sperimentare la morte tutti assieme. Dopodiché e solo dopo si beve vino e si ama la vita. La mia chiamata è una chiamata al niente, come se fossi il Bianconiglio di Alice, il pifferaio magico o lo Stregatto. Ecco, soprattutto lo Stregatto.

Vivi in Francia, a Parigi. Ne sei felice?
La Francia mi piace molto, sto bene qua. Si prendono cura di me, mi considerano un artista francese. Sostengono la cultura qui, si rendono conto che è una questione anche economica, valorizzano e sono orgogliosi di quello che si fa; mi sento partecipe dello scambio relativo alle grandi questioni, soprattutto adesso. Il tema dell’immigrazione qui è delicato e complesso: le persone che frequento io, come me, credono nello scambio di conoscenze più che in altre cose. Qui c’è tanto da fare: bisognerebbe mobilitarsi di più; cerco di sostenere chi si mobilita, qui in Francia, su questi temi. Credo che la poesia del marinaio e della barca di Juan Rulfo, che ho citato, sia la strada.

Maria Elena Colombo

www.alexcecchetti.com

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