Il programma 2018 di ar/ge kunst Bolzano. Intervista al direttore
Parola a Emanuele Guidi, direttore artistico della sede altoatesina da sempre interessata alle nuove tendenze del contemporaneo.
Il programma di ar/ge kunst, nel 2018, sarà tra i più rifiniti della stagione. Emanuele Guidi darà vita a quattro progetti espositivi, integrati da specifici public program. Nell’ordine, saranno inaugurati: una mostra dedicata a Matilde Cassani (23 febbraio), la prima mostra personale italiana del collettivo Slavs and Tatars (18 maggio); i progetti del collettivo franco-italiano Islands Songs (Nicolas Perret & Silvia Ploner), dopo la collaborazione con il festival Transart (7 settembre) e infine la prima mostra personale di Otobong Nkanga (23 novembre). Seguendo ciascuno di questi quattro appuntamenti, il public program vedrà la continuazione della serie di presentazioni La Mia Scuola di Architettura, iniziata nel 2013, con la novità che i relatori saranno invitati da tre curatrici ospiti: Frida Carazzato, Museion, (Bolzano); Simone Mair, ar/ge kunst/BAU, (Bolzano); Nina Tabassomi, Taxispalais Kunsthalle Tirol, (Innsbruck). Abbiamo chiesto al direttore artistico Emanuele Guidi di approfondire queste scelte miratissime e di ricerca.
Come si è modificata, negli ultimi tre anni, l’attenzione del pubblico e dei media alla vostra programmazione e alla vostra sede?
È sempre difficile misurare l’attenzione che oggi sempre di più è frammentata tra i troppi canali di comunicazione (dalle iscrizioni alla newsletter, ai social fino alla stampa specializzata e non), ma posso sicuramente dire che c´è stata una progressiva crescita di attenzione negli ultimi tre anni. Non avendo un ufficio stampa dedicato, ammetto anche le difficoltà di questa parte del lavoro che richiederebbe maggiori energie.
A quale pubblico vi rivolgete?
Ciò che mi dà maggiore soddisfazione è l’aumento di un pubblico giovane che arriva dalla vicina Libera Università di Bolzano con gli indirizzi in Design e Arte. Inoltre ogni mostra ha la propria storia, con una comunicazione dedicata che genera quindi il proprio audience; questo perché credo che la nostra programmazione, nei temi che affronta, sia in grado di andare oltre un pubblico specializzato dell’arte contemporanea. Ma un metro di giudizio importante per valutare l’attenzione verso ar/ge kunst è, secondo me, il numero di collaborazioni e co-produzioni, principalmente internazionali, che siamo riusciti a realizzare, come nei recenti progetti di Alex Martinis Roe con diverse istituzioni europee o di Riccardo Giacconi al Frac Champagne-Ardenne.
Potresti elencare tre caratteristiche che contraddistingueranno non solo le mostre ma anche il fitto programma di eventi che ospiterete?
La prima: tutti gli invitati al programma del 2018 lavorano con metodologie diverse ma verso una comune ricerca e promozione di processi di ibridizzazione e trasformazione che hanno, o hanno avuto, luogo in Europa e non solo; un modo per affrontare i temi più vari che vanno dai processi migratori fino alla questione della co-abitazione nell’attuale antropocene, cercando di rintracciare punti di riferimento e chiavi di lettura non euro-centriche e non rifiutando un approccio storico.
E la seconda?
La seconda riguarda un modo per affrontare questioni urgenti ma che risuonino comunque con la complessità della storia, e del presente, del territorio in cui ar/ge kunst opera. La terza, infine, è legata a tutto questo, a partire dalla necessaria indagine sui linguaggi e le metodologie attraverso cui affrontare tali questioni. Credo che comune a tutte sia un costante attraversamento delle discipline che permette di usare la “mostra” come un formato per la produzione e circolazione di conoscenza.
Di quali tipologie di budget vi doterete e come verranno ripartiti i finanziamenti, fra enti pubblici e privati?
Al netto dei costi di gestione, quello che rimane per il programma si aggira tra i 50 e i 60mila euro complessivi, che principalmente sono contributo della Provincia Autonoma di Bolzano e a seguire della Fondazione Cassa di Risparmio Alto Adige, Comune di Bolzano e Regione Alto Adige. Un budget che cerchiamo di incrementare attraverso il supporto di altri enti e istituti internazionali così come di sponsor privati, che in alcuni casi sono stati molto generosi. Considerando che commissioniamo e produciamo quasi sempre interamente le nostre mostre, offrendo un onorario per gli artisti, lo sforzo è notevole, e per questo per me è centrale cercare di lavorare il più possibile con altre istituzioni partner.
In merito a Matilde Cassani, quale ciclo concluderà e quale ultimo insegnamento lascerà in ar/ge kunst?
Matilde è stata invitata come parte del ciclo One Year-Long Resarch Project dopo i primi due “episodi” con Gareth Kennedy (2013-14) e Can Altay (2014-16, in collaborazione con Lungomare, Bolzano); un programma che prevede diverse visite nel corso di uno o più anni e che permette una lenta e progressiva conoscenza del territorio e lo sviluppo di un progetto articolato. Questa volta abbiamo condiviso l´invito con Künstlerhaus Büchsenhausen di Innsbruck, così da permettere a Matilde di muoversi attraverso questo territorio di confine che ha una lunga storia e che negli ultimi anni è tornato al centro delle cronache internazionali proprio per i flussi di migranti da sud a nord. Il ciclo One Year-Long Resarch Project è una scelta di metodologia di lavoro che, se fosse possibile, estenderei a tutte le mostre, proprio per la produzione di relazioni che permette di mettere in moto. Chiaramente questo richiederebbe finanze e un team che ar/ge kunst non ha a disposizione, anche se stiamo crescendo.
Quali snodi, punti di incontro, sovrapposizioni e antinomie verranno o sono stati mostrati negli spazi di ar/ge kunst?
ar/ge kunst nasce come centro per l´arte e l’architettura presentando mostre personali di architetti come Chipperfield e Zumthor negli Anni ’80 e ’90; un percorso che si è gradualmente perso nel tempo e che ho cercato di riattivare presentando il lavoro di architetti, o meglio artisti-architetti, che hanno trovato nel campo delle arti visive uno spazio di sperimentazione, concentrandosi su quelle che in inglese sono definite come spatial practices e che vanno dallo sguardo sulla città, la ricerca sociologica e urbanistica fino a una indagine sulle politiche del display e le tecniche espositive.
Quali intersezioni reali ritieni possibili tra architettura e arte contemporanea?
Una ricerca sullo spazio è centrale per uno spazio per l’arte contemporanea che vuole portare avanti una riflessione sul linguaggio espositivo e allo stesso tempo non dimenticare il contesto territoriale dove opera, che è molto specifico e denso, come nel caso di Bolzano.
Colpisce molto, fra le selezioni operate quest’anno, la scelta di Slavs and Tatars e Islands Songs, due collettivi che, quasi all’opposto, si richiamano. Potresti introdurli brevemente?
Slavs and Tatars è stato costituito da Payam Sharifi e Kasia Korczak nel 2006 come reading group e ha successivamente spostato l’interesse per l’atto della lettura (e quindi condivisione e circolazione di sapere) al di là della specificità dell’oggetto-libro, traducendolo in vari formati espositivi e performativi. È dal 2013 che provavo a invitarli proprio perché anche per me è centrale la relazione tra il libro e la mostra come “possibilità di pubblicazione”, nel senso del rendere pubblico, e credo Slavs and Tatars siano stati, in questi ultimi dieci anni, tra gli artisti che hanno lavorato in questa direzione nel modo più seducente sul piano visivo e complesso su quello linguistico, proprio per il fatto di aver abbracciato la complessità di un’area geo-politica e storica come quella dell’Eurasia producendone un’estetica ben precisa.
E Islands Songs?
Islands Song sono invece Nicolas Perret e Silvia Ploner (nata in Sud Tirolo), che si sono formati come duo artistico soltanto tre anni fa intorno a una ricerca sul suono come dispositivo. Li conosco da prima che diventassero di fatto un duo artistico ed è stato estremamente interessante vedere il loro primo esperimento di mostra al Grimmuseum di Berlino nel 2016, dopo il quale ho voluto invitarli, fino alla più recente partecipazione al programma radio di Documenta 14, Savvy funk ‒ EVERY TIME A EAR DI SOUN. Con loro lavoreremo sullo sviluppo di quest’ultimo e quindi sull’indagine dei rapporti tra uomo e natura, prendendo in esame pratiche sciamaniche, studi dalla biologia e dall’antropologia.
Quando hai incontrato per la prima volta Otobong? E per quali motivi ritieni che metodologie, pratiche e processi legati al suo lavoro possano valorizzare la portata innovatrice di ar/ge kunst?
Ho invitato Otobong Nkanga nella seconda parte del programma introduttivo che ho curato ad ar/ge kunst nel 2013: Prologue Part II – La Mia Scuola di Architettura. Anche in questo caso si tratta di una pratica che si muove tra vari linguaggi in modo molto fluido, dal disegno alla performance, dall’installazione fino alla pubblicazione. In particolare il suo interesse per il rapporto tra comunità, economia, territorio ed educazione è estremamente rilevante oggi e ho voluto riportarla a Bolzano con un progetto personale che potesse dare spazio a tutta questa complessità. La ricerca per forme di sostenibilità che Otobong porta avanti e la produzione di consapevolezza intorno all’utilizzo delle materie prime da parte delle comunità autoctone verso cui lavora sono centrali per ripensare le relazioni di potere in termini de-coloniali.
Potresti formulare un pensiero o un augurio che accompagni il 2018 di ar/ge kunst?
Forse che sia un anno per (ri-)scoprire il piacere delle complessità.
‒ Ginevra Bria
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati