Marina Ripa di Meana. Il ricordo della storica dell’arte e curatrice Laura Cherubini
Un bellissimo, appassionato, personale e commovente ricordo di Marina Ripa di Meana firmato dall'amica Laura Cherubini. Nella storia di Marina, grande protagonista del nostro tempo, si intrecciano le vicende di Moravia, Parise, Angeli, Kerouac, Gian Maria Volonté e molti altri indimenticabili alfieri della cultura.
Che Marina fosse straordinariamente bella è un segreto di Pulcinella. Che una tale bellezza mozzafiato, così naturalmente seducente (non seduttiva che è cosa abbastanza diversa), abbia collezionato tanti corteggiatori e grandi amori è quasi un’ovvietà. Ma come tutte le donne veramente molto amate e desiderate Marina non parlava di uomini. Ricordo quando l’ho conosciuta a Venezia nel ’78. Carlo Ripa di Meana era Presidente della Biennale di Venezia e aveva incaricato Achille Bonito Oliva di curare (con Amman, Del Guercio e Menna) la grande mostra internazionale, che allora si chiamava storico-critica, così Achille e io andammo a cena da lui a Venezia, c’erano l’amico fotografo Lorenzo Capellini e Marina. Lei era molto più bella che in qualunque fotografia, era elegantissima con una semplice camicia di seta color champagne e larghi pantaloni color tabacco. Rimasi incantata dalla sua intelligenza, dalla sua delicatezza, dal garbo e dall’arguzia con cui parlava di arte. Sono pienamente d’accordo con quanto ha scritto l’amico Giampiero Mughini che l’ha definita “la donna più intelligente che io abbia conosciuto… un’amica di grandissima affidabilità, sottigliezza, generosità”.
MARINA HA SEMPRE LAVORATO
A Dorsoduro, dietro alla chiesa della Salute, nella casa della Wally Toscanini, Carlo non viveva nel lusso, si era addirittura autoridotto lo stipendio di Presidente della Biennale. Ho sentito molte sciocchezze in questi giorni su Marina, persino un giornalista che ha detto che si è potuta permettere una vita di provocazioni perché ha avuto due mariti ricchi! Dalla moda alla comunicazione Marina ha sempre lavorato. Ma forse non conta che siano state dette cose inesatte, colpisce l’ondata di emozione che la scomparsa di Marina ha suscitato, era personaggio “popolare” nel senso migliore del termine, a Roma ne parlano tutti, dai tassisti agli ambulanti, aveva saputo toccare le corde di tanti cuori. Carlo, il grande amore della sua vita, da Presidente della Biennale aveva fatto cose veramente importanti, dalla Biennale del ’74, dedicata al Cile, cui ha reso omaggio nel 2015 Okwui Enwezor, alla Biennale del Dissenso del ’76 (Mughini ha detto che ci vorrebbe la medaglia d’oro al merito civile per questo) per la quale subì attacchi e minacce e Marina era lì al suo fianco nella battaglia, a sostenerlo a spada tratta.
È stata Marina a raccontarmi, come una favola, la storia di un quadro fatto insieme nel 1966 da Franco Angeli (con il quale aveva vissuto una importante, passionale e tempestosa storia d’amore) pittore e protagonista della cosiddetta “Scuola di Piazza del Popolo” e da Jack Kerouac, scrittore americano on the road , ispirandosi a La conversione di San Paolo il dipinto di Caravaggio in Santa Maria del Popolo. Siamo sempre lì, piazza del Popolo… Jack Kerouc era il poeta della beat generation. Era stato buttato fuori da un bar della zona di piazza del Popolo perché, ubriaco, straparlava e i frequentatori dicevano che era fascista.
FRANCO ANGELI E JACK KEROUAC
Franco l’aveva soccorso e l’aveva portato in studio da lui, a via Oslavia, dove il poeta aveva dormito per un paio di giorni. Marina (allora Lante della Rovere) ricordava “quel quadro buttato lì, con quella tipica nonchalance che Franco aveva, nello studio di via de’ Prefetti dove si era trasferito da poco da via Oslavia e lo sentivo dire: ‘Che ignoranti! Buttano fuori Kerouac, non sanno manco chi è!’… poco tempo prima ricordo che Schifano, nella sua casa di Piazza in Piscinula, rideva a crepapelle del fatto che Angeli e Kerouac avessero fatto un quadro insieme senza parlare una parola nella lingua l’uno dell’altro. Mario parlava sempre in modo iperbolico e diceva: ‘…tutti i piccolo borghesi parlano bene l’inglese, Franco invece è un figlio del popolo, ma è meglio di tutti loro e Kerouac il quadro l’ha fatto con lui…’.”. Il quadro dipinto con Kerouac lo comprò Gian Maria Volonté, l’attore, il grande protagonista di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri e di tanti film impegnati. Era amico di Franco e assiduo frequentatore dello studio. Un quadro venduto all’amico attore, quasi un fatto privato, come la vicenda da cui è nato, un’amicizia tra un pittore italiano che non parlava l’inglese e un poeta americano che non parlava l’italiano, però s’intesero a fondo. “Franco i quadri non voleva venderli e ogni volta che ne vendeva uno si disperava per tre giorni” proseguiva Marina (il quadro riappariva in una mostra di foto di Angeli curata da Carlo e Marina ai Mercati Traianei, Il sogno fotografico di Franco Angeli 1967-1975). Il soggetto del quadro è un’iconografia religiosa, è l’immagine della Deposizione dalla Croce, il momento della pietas, in cui al Cristo rimangono vicine le figure femminili e l’apostolo Giovanni. Si tratta di una grande tela cosparsa da una tempera celeste a spruzzo, una materia aspra e scabra. Si sa che Kerouac riempiva i suoi taccuini di schizzi. L’ispirazione mistica deve essere stata suggerita da Kerouac che per tutta la vita cercò nella religione come nell’alcol, nelle droghe e nelle fughe senza via d’uscita dei viaggi (quasi sempre con esiti disastrosi) una ribellione alle convenzioni e una dimensione esistenziale.
LA STORIA D’AMORE CON FRANCO ANGELI
Angeli percorse un’analoga ricerca anche attraverso la dimensione politica. Da laico probabilmente era più attratto dall’ispirazione caravaggesca di quella cappella a cui condusse Kerouac il giorno dopo averlo salvato dell’ennesima rissa della sua vita. E in quel quadro che fecero tornando allo studio di via Oslavia c’è una religiosità, o meglio un senso del sacro quasi pasoliniano. In quella stessa chiesa di Santa Maria del Popolo nel 1988 ci sarà il funerale di Franco Angeli e sarà proprio Carlo Ripa di Meana a tenere, con voce commossa, una struggente e appassionata orazione funebre (ricordo Marina uscire dalla cerimonia tenendo la manina di Maria, la figlia di Franco e Livia Lancellotti). Jack Kerouac era già morto di cirrosi nel 1969 a 47 anni in seguito all’ennesima sbronza. Si incontrarono in una Roma bella e maledetta, povera, ma bella. Lo studio successivo per Angeli è in via de’ Prefetti, ed è lì che nasce la storia d’amore con Marina che mi ha descritto l’appartamento: “Un grande attico, in angolo su piazza Firenze, con una bellissima luce e mattonelle bordeaux romboidali, sempre lucidissime. Per il resto praticamente vuoto, c’era solo un divano letto, dove Franco dormiva vestito. Portava sempre pantaloni di velluto”. Quel divano Marina ce l’aveva ancora. Quando aveva conosciuto Franco nello studio di Schifano l’aveva giudicato “un uomo bellissimo, ma male in arnese… tutto abbottato”. In estate, quando vanno al mare a Fregene o ad Ansedonia, dove ci sono amici artisti come Mario Schifano (che per un periodo vive lì) o intellettuali come Bernardo Bertolucci, Franco indossa pantaloni a righe “tipo carcerato”. Vanno da Rosati, al Bolognese, al Toulà e anche spesso a cena con Renato Guttuso e Mimise alla Fontanella. Di quegli anni Marina ricorda lunghe passeggiate a piedi tra via Borgognona, dove abita, e via de’ Prefetti. Poi c’è il trasferimento a piazza Farnese, per andare ad abitare insieme (in realtà Marina aveva tenuto l’atelier in piazza di Spagna e la casa in via Borgognona). L’appartamento è al primo piano e a volte dalle finestre calano un cestino per farsi mandare il cibo dalla trattoria sottostante. “Franco però cucinava molto bene, soprattutto l’abbacchio, e invitava gli amici. Ospite fisso a casa era Marco Bellocchio: aveva già fatto I pugni in tasca e La Cina è vicina ed era molto famoso, però era tristissimo, seduto all’indiana, con la faccia tra le ginocchia… Per fare contento Franco avevo portato tutti i miei vestiti lì, in una stanzetta che dava sul vicolo, li acchiappavo da terra… per fortuna c’era la moda hippy…” raccontava Marina ridendo. Anche questa casa è comunque molto vuota: un divano, un tavolo, tanti quadri e una macchina da scrivere. Poi ci saranno lo studio di via Monte della Farina e la casa sull’Appia Antica (dove ci sarà la grande festa in rosso per la vittoria del PCI, cui partecipano Antonioni, Monica Vitti, Tinto Brass…). Tra i loro amici c’erano anche scrittori come Sandro Penna, Alberto Moravia e Goffredo Parise (alla sua amicizia con gli ultimi due Marina ha dedicato il suo ultimo delizioso libro, Colazione al Grand Hotel, ma ne aveva in preparazione altri due, uno sulla malattia, con il suo coraggio mi aveva detto che voleva intitolarlo Ho preso il cancro per le corna; l’altro sui cani, amava moltissimo gli animali).
LA LUCE DI ROMA
Pare che lo scrittore Dudù La Capria dopo la scomparsa di Marina abbia esclamato: “Roma è spenta, perché lei era la luce!”, è una sensazione che ho provato anch’io. Marina era luminosa, usava spesso l’aggettivo “brillante”. Era l’ultima protagonista di una vita che a Roma era stata dolce. Una città dove essere divertenti era quasi un dovere e a nessuno questo riusciva meglio che a Marina, spiritosissima, dotata di grande senso dell’ironia e di allegra vitalità. Avevo avuto due gravi operazioni e il mio primo viaggio dopo la convalescenza fu andare a Bologna per Artefiera. Lei (veniva sempre a Bologna per la fiera, spesso con gli amici Christian e Miria Maretti) era nello stand di Pio Monti e mi accolse con un abbraccio al grido di: “Anche tu tumorata di Dio!”. La ricordo in uno splendido abito da sera ballare con l’amico Giulio Turcato con un maglione tutto sdrucito e anche scatenata in un ritmo afro mentre Giovanna Portoghesi si esibiva in una danza del ventre e io in un pezzo di balletto classico. La domenica sera con Gino De Dominicis andavamo spesso con Carlo e Marina alle Colline Emiliane, Gino adorava il piccioncino. “È difficile dire chi dei due fosse il più squinternato” ha detto Mughini di Carlo e Marina. Carlo era un politico diverso da tutti, non aggressivo, non carrierista, ma raffinato e coltissimo. Due persone a loro modo bizzarre e non convenzionali, libertarie, anticonformiste.
IL SUO MESSAGGIO
Insieme hanno combattuto battaglie animaliste ed ecologiste. Poi Marina si è battuta come una leonessa contro i ciarlatani che illudono i malati di tumore, per la legge sul fine vita e infine con l’ultimo fortissimo messaggio video: “Fate sapere ai malati terminali che c’è un’alternativa al suicidio in Svizzera”. Indomita, con un incredibile coraggio, dopo anni passati a combattere la malattia con l’energia che sempre metteva in tutte le cose. C’era bellezza e grandezza in tutto quello che faceva e diceva. Mai competitiva con le altre donne, anzi, sempre la prima a dire alle amiche: quanto sei bella, che bel vestito… ma se qualcosa la faceva infuriare Marina era inarrestabile. Aveva iniziato a 13 anni quando al cinema un tale aveva avuto la malaugurata idea di masturbarsi sul suo montgomery giallo e lei aveva tanto urlato e scalciato che lo aveva (giustamente) fatto arrestare. Aveva proseguito con lanci di torte e scarpe rosse dal vertiginoso tacco. Ma c’era un’altra Marina. Quella che una sera che ero andata da lei perché mi aveva invitato con amici in un locale, vedendo la sua piccola bellissima Lucrezia che aveva allora 7-8 anni, aveva detto: “Ma si può uscire quando c’è a casa una simile meraviglia?”. Quella che quando la nostra amica Carlotta de Guevara morì in un incidente di macchina in cui rimase gravemente ferita la figlia piccolissima mi chiamò per dirmi che lei e Carlo avrebbero voluto sostenere le spese mediche per la bambina. Quella che ho accompagnato a portare salmone e mango a Carlo in ospedale. Quella a cui nessuno aveva il coraggio di dire che la sua amica di una vita, la grande fotografa Elisabetta Catalano, era scomparsa, e fui io ad avvisarla. Ora smetto perché se no Marina mi dice: “Non diventare melensa…”. La sera della vigilia di Natale aveva invitato pochi amici stretti, ma all’ultimo momento aveva dovuto disdire: Carlo aveva la febbre, ma anche lei (mi aveva bisbigliato al telefono il figlio adottivo Andrea) non stava tanto bene. Mi aveva chiamato mortificata per scusarsi. “Che peccato, ti avevo preso le ostriche!” è l’ultima cosa che mi ha detto… Se penso a lei e alla sua leggerezza mi viene in mente una frase di von Hofmannsthal: “Bisogna nascondere la profondità: Dove? Nella superficie”.
– Laura Cherubini
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