Intervista a Cristiana Perrella nuovo direttore del Centro Pecci di Prato
La curatrice romana racconta il futuro dell’istituzione che si appresta a dirigere. Con un occhio vigile sul territorio e con una programmazione orientata verso le nuove tecnologie.
Al Centro Pecci di Prato inizia la direzione di Cristiana Perrella, dopo la stagione di Fabio Cavallucci che, sebbene adombrata da conflitti con l’amministrazione locale, ha felicemente traghettato l’ampliamento del museo verso una nuova era espositiva. Al netto delle polemiche, il timone passa ora alla Perrella, professionista di vaglia scortata da un pedigree dove spiccano curatele in musei e fondazioni importanti come il MAXXI di Roma, la Fondazione Prada di Milano, la Fondazione Golinelli di Bologna.
Ti aspetta un triennio di lavoro, un tempo sufficiente per dare a un Centro per l’arte contemporanea una fisonomia riconoscibile?
Credo di sì e comincerò da subito parlando con le persone che lavorano al museo e con quanti si occupano di cultura per imbastire un programma che accolga le esigenze del luogo. Del resto il Pecci è coordinatore regionale del contemporaneo in Toscana, dunque ha un ruolo importante in relazione al territorio
Che territorio è questo?
Un territorio dove succedono molte cose ma che spesso sono oscurate da un’identità locale fortemente legata al paesaggio e alla storia.
Cosa serve al Centro Pecci per un rilancio internazionale, dopo l’ampliamento progettato da Maurice Nio che ne ha rimodellato spazi e “facies” ma non ha ancora espresso al meglio le sue potenzialità?
Direi che un rilancio è stato già ampiamente avviato, per esempio, con la mostra La fine del mondo e con una programmazione di qualità, penso all’evento dedicato a Jérôme Bel, orientato a documentare la pluralità dei linguaggi contemporanei. Forse c’è stata una penalizzazione dovuta a una comunicazione poco efficace e non intensa. Ripartiamo con la mostra di Mark Wallinger, ancora relativa alla precedente direzione, ma per me molto stimolante.
Già ci avevi lavorato con Wallinger?
Sì. Quando ero curatrice all’Accademia Britannica, l’artista vi è stato in residenza e ho commissionato e prodotto un suo lavoro, il video Threshold to the Kingdom, passato alla Biennale di Venezia e ora presentato nella mostra del Pecci.
Accetti una direzione sulla quale pesano, a detta del tuo predecessore Fabio Cavallucci, condizionamenti istituzionali. Come si fronteggiano le ingerenze della politica sulla cultura?
In genere sono poco conflittuale, mi piace ascoltare tutti e contestualmente portare avanti le mie idee. Spero che questa mia indole serva a spianare conflitti. I primi approcci sono stati positivi e ho riscontrato molte aspettative e un interesse condiviso a far sì che il museo funzioni al meglio.
Torni a Prato dopo quasi trent’anni da quel lontano 1991-92 quando qui hai frequentato un corso per giovani curatori. Come è cambiato da allora il sistema del contemporaneo?
Direi che è cambiato tutto il sistema dell’arte. All’epoca il Pecci era il secondo museo di arte contemporanea italiano dopo Rivoli e il primo costruito ex novo. Esprimeva tra l’altro le energie di un territorio in cui Prato era una città industriale, ricca, proiettata verso il futuro a differenza di altre città italiane più radicate nella storia. Non è un caso che entrambi i musei siano nati in contesti fortemente industrializzati.
Ora il sistema dell’arte è più variegato, più solido, con molti centri e gallerie e anche Prato è mutata. Come ha risposto alle dinamiche dell’economia globale e della faticosa post industrializzazione?
Prato rimane comunque una città attiva che è stata in grado di rilanciarsi in termini d’innovazione, dove, per esempio, con il 5G si sperimentano nuovi e velocissimi standard per la comunicazione mobile, dove esiste nel territorio, a Sesto, un polo scientifico e tecnologico di altissimo livello, e dove sono state avviate le esperienze delle Manifatture Digitali Cinema.
Un dato sicuramente interessante viene dalla composizione demografica del territorio. Quanto può incidere nella programmazione culturale di un museo?
Un quarto della popolazione di Prato è cinese ma con immigrati provenienti anche da altre nazioni, è un laboratorio complesso ma stimolante con il quale intendo dialogare. Mi interessa parlare a queste culture affinché trovino nel museo un terreno di confronto e per farlo occorre potenziare i servizi offerti alla comunità con i modi che l’arte propone per osservare il presente. Penso al museo non come un’istituzione granitica ma come una casa per tutti dove immaginare visioni comuni.
Questo è già un aspetto su cui puntare, ma in prima battuta ci sarà la parte espositiva. Da cosa partirai?
Come curatrice è l’aspetto che mi sta più a cuore. La programmazione è ancora da definire ma vorrei cominciare dall’innovazione tecnologica e dai suoi effetti sul nostro modo di relazionarci, di pensare, di conoscere e di creare immagini.
Insomma, punti ai giovani?
Ma sì, penso che sia un campo in cui intercettare anche l’interesse delle generazioni più giovani e con cui affrontare problemi cruciali per il nostro presente, perché le tecnologie hanno implicazioni etiche e filosofiche.
‒ Marilena Di Tursi
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