Musei e digitale. Intervista a Sebastian Chan
Dopo le prime due puntate nella Grande Mela – con Nancy Proctor e Chiara Bernasconi – e poi il ritorno in Europa con l’Amsterdam di Linda Volkers, la rubrica che si occupa di musei e digitale è volata fino in Australia. Qui abbiamo incontrato un guru che si chiama Sebastian Chan, Chief Experience Officer all’Australian Centre for the Moving Image.
Quanto sono importanti la comunicazione digitale e lo sviluppo digitale per un museo? Ci sono due mondi separati là fuori, uno online e uno offline?
Entrambi sono essenziali. Il digitale è ormai inscindibile dal resto in ogni parte della nostra vita. I modelli di ricavo dal digitale per i musei sono ancora obsoleti: rappresentano in gran parte la traslazione sul digitale dei flussi di entrate tradizionali – la bigliettazione ne è l’esempio più ovvio.
Cosa significa per un museo fare qualcosa di “rilevante”? E come può essere misurato?
La rilevanza può essere misurata solo se il museo è molto consapevole rispetto all’obiettivo del proprio essere rilevanti. Oggi i musei si confrontano con un pubblico diversificato: dagli studiosi professionisti ai turisti internazionali, che visiteranno il museo solo una volta, con ogni variante fra le due posizioni. Essere chiari riguardo l’obiettivo, scegliere con chi è necessario essere rilevanti, è l’unico modo in cui un museo può iniziare a considerare come misurare al meglio la propria attività. La metrica e la misura che ho visto utilizzare nei musei vanno dal conteggio del numero delle citazioni alle recensioni dei social media fino al significato profondo che l’istituzione guadagna al cospetto della comunità.
Quali sono le abilità e le competenze fondamentali per un social media manager in un museo? È un profilo professionale che richiede competenze tecniche?
I social media cambiano rapidamente – e non alludo solo alle singole piattaforme, ma anche al modo in cui vengono utilizzate. Ora che le linee tra comunicazione digitale e non si sono intrecciate nell’attività “comunicazione” tout court, fare il SMM significa piuttosto comprendere il contesto e come il significato viene costruito nelle differenti comunità. Al giorno d’oggi le competenze chiave riguardano la capacità di adattarsi al cambiamento e la curiosità di lavorare con le comunità, in uno scambio reciproco. Le competenze tecniche sono meno importanti. Credo però che, all’interno di musei più grandi, sia necessaria una solida conoscenza tecnica per stare al passo con il cambiamento ed essere in grado di comprendere e sperimentare “ciò che verrà dopo”.
Che tipo di narrazione produce una grande esperienza? Ad esempio, come valuti il progetto Cooper Hewitt Pen?
La Cooper Hewitt Pen ha trasformato la relazione del pubblico con quel museo. Sono molto orgoglioso del team che ha collaborato al progetto, perché ha superato di gran lunga quello che ognuno di noi si sarebbe potuto aspettare in termini di risultati: le presenze sono aumentate, l’età media del visitatore è precipitata, la collezione è stata largamente vista e condivisa. Un risultato ancora più importante è stato l’aver fornito all’intero comparto museale un suggerimento su ciò che si può davvero realizzare in un “museo completamente digitalizzato”. Sono un po’ deluso dal fatto che le altre istituzioni non abbiano davvero tenuto conto dell’esempio e non lo abbiano seguito; anzi, credo sia ancora visto come un’eccezione.
Parlaci della tua relazione con il museo per cui lavori. Sei soddisfatto di lavorare in Australia?
Sono il Chief Experience Officer di ACMI – Australian Center for the Moving Image e abbiamo appena cominciato a lavorare alla riqualificazione del nostro principale sito museale, situato nel centro di Melbourne. È una buona istituzione in una grande città che si trova in un momento di svolta decisiva. Nei prossimi anni emergerà un nuovo ACMI e – essendo il museo nazionale del cinema, della tv, del videogioco, della cultura digitale e dell’arte – la digitalizzazione risiede nel cuore stesso dell’istituto.
Puoi consigliare un libro che ritieni sia intelligente e utile per i colleghi italiani?
Quest’anno sono tornato a leggere molta più fiction. Il secondo romanzo di Robin Sloan, Sourdough, è una meditazione veloce e divertente sulla cultura tecnologica attraverso gli occhi di un ingegnere robotico che eredita una coltura di lievito naturale. È una lettura veloce e proviene dalla mente che ha prodotto un video del 2004 davvero preveggente, EPIC2014, dove ha immaginato il futuro del web e delle news con grande anticipo.
‒ Maria Elena Colombo
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #41
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