Raccontare l’arte contemporanea. Intervista a Carlo Vanoni
Spazia dalla televisione al teatro, passando per radio e YouTube. Il suo nome è Carlo Vanoni e il suo “mestiere” è avvicinare il grande pubblico all’arte contemporanea.
Non usa le sue due lauree ‒ in Sociologia a Urbino e in Conservazione dei beni culturali a Ca’ Foscari, a Venezia ‒ per “salire in cattedra”, ma piuttosto per scendere dalla cattedra e arrivare alla gente, meglio se poco preparata sull’arte contemporanea e meglio ancora se si tratta proprio dei più scettici sul tema. Carlo Vanoni racconta l’arte in modo semplice, seducente, comprensibile e lo fa con ogni mezzo possibile: in teatro, alla radio e in tv, su giornali e riviste e pubblicando saggi dal titolo provocatorio e divertente come Andy Warhol era calvo. Non smette nemmeno mentre guida, occasione perfetta per tenere “a braccio” brevi lezioni monografiche caricate su YouTube quasi in presa diretta, senza montaggio. L’espressionismo? “È dipingere quello che si sente”. Duchamp? “Rende l’utile inutile” e Picasso “aggiunge allo sguardo anche tempo e movimento”.
L’arte contemporanea ha un nuovo narratore, perché nessuno possa più dire “l’arte contemporanea io proprio non la capisco”.
C’è un’opera o un artista che ti ha colpito particolarmente e ti ha fatto venire voglia di occuparti di arte contemporanea?
Sì, Portrait of Ross in L.A., il mucchio di caramelle di Félix González-Torres. A distanza di oltre vent’anni gli ho dedicato il mio primo spettacolo teatrale, L’arte è una caramella.
Come hai deciso di divulgarla? Come hai avvertito questo desiderio, questa… emergenza?
Ero stufo di sentirmi dire banalità tipo “l’orinatoio di Duchamp non è arte”, oppure che fare arte significa saper “dipingere bene”. E soprattutto che l’arte di un tempo era meglio di quella di oggi.
La scrivi, la racconti, la recensisci, ne fai spettacolo. Usi ogni mezzo utile per la sua divulgazione. Qual è il tuo scopo, che cosa vorresti ottenere?
Vorrei che l’arte fosse argomento di discussione come lo sono sport e politica. Vorrei che quando muore un artista importante se ne parlasse al telegiornale, allo stesso modo in cui si parla della scomparsa di un giornalista, di uno chef di cucina o di un tronista (ma forse non ci sono ancora tronisti morti).
Nel tuo libro Andy Warhol era calvo raccogli una serie di brevi aneddoti intorno all’arte, alle fiere, alle grandi installazioni, ai collezionisti, ma il tuo sguardo è sempre da fuori, come un nuovo arrivato. Lo fai per far sentire a proprio agio quelli che non ne sanno niente, o questo è l’atteggiamento che hai scelto per comprendere l’arte contemporanea senza preconcetti?
Lo faccio perché non m’interessa divulgare l’arte a quelli che già la conoscono. Da loro, piuttosto, mi interessa molto apprendere. Per dirla in numeri: io non mi rivolgo ai 500mila che visitano la Biennale di Venezia, ma ai 50 milioni che non sanno chi sia Tino Sehgal. Ti racconto un episodio: tempo fa feci una conferenza sull’Arte Concettuale, da Duchamp a oggi. Mostrai opere di Judd e Flavin, Kosuth, parlai appunto di Tino Sehgal che all’epoca esponeva al Guggenheim, aggiunsi ovviamente Lawrence Wiener e Robert Barry. Le persone mi ascoltavano perplesse, io pensavo “saranno tutte cose che conoscono e vorrebbero nomi più vicini ai giorni nostri”. Alla fine mi ringraziano dicendomi: “Molto interessante, ma non conoscevamo questo Marcel Duchamp”. Non conoscevano Duchamp! Figuriamoci tutti gli altri!
Questo per dire che se esci dal giro di appassionati e collezionisti, l’arte degli ultimi cento anni è pressoché sconosciuta.
La prima volta che hai fatto uno spettacolo sull’arte. Come è andata? E come si è evoluto lo spettacolo successivamente?
Ho capito che se sai raccontare una storia la gente ti ascolta sempre. A prescindere dal contenuto. Poi ho sistemato alcune cose che non capivo io. Nel senso che quando racconto una storia, il primo a capirla devo essere io. Se non sono collegato con quello che dico è bene che riscriva il concetto fino a quando non esce come ce l’ho in testa.
Al grande pubblico l’arte contemporanea risulta spesso un enigma. È sospettoso, talvolta si sente preso in giro. Quali sono le tue armi di seduzione per far “passare” e amare l’arte?
Io dico che l’arte è come la vita: non deve per forza essere spettacolare, impossibile da rifare, piena di effetti speciali. L’arte è. Punto. E se qualcuno obietta rispondo: non sei portato per l’arte, lascia perdere. In fondo non ho mai capito perché il concetto di “essere portati” si debba sempre e solo riferire allo sport o alle lingue straniere… Uno può anche non essere portato per comprendere la poesia, o l’arte stessa. Prendiamo ad esempio i versi di Sandro Penna:
“Il mare è tutto azzurro
Il mare è tutto calmo.
Nel cuore è quasi un urlo
di gioia. E tutto è calmo”.
Come si fa a spiegare che questa è poesia pura?
Quale dei tuoi spettacoli è il tuo preferito, il più riuscito e perché?
Il primo, come sempre! E cioè L’arte è una caramella. Lì dentro ci sono oltre vent’anni di domande che mi hanno fatto e a cui ho cercato di dare una risposta. Non so se ci sono riuscito.
Quello che salta all’occhio nei tuoi testi e nei tuoi spettacoli è un certo approccio direi ‘anti-critico’, a-cronologico, insomma un mix di epoche e opere, da Giotto a Michelangelo, da González-Torres e Cattelan. È una scelta che sembra basarsi più sul significato dell’opera che sul suo contesto storico, come se tutta l’arte fosse contemporanea. Tutta l’arte è contemporanea (come diceva Gino De Dominicis)?
Tutta l’arte è contemporanea proprio perché partorita anche dal contesto storico in cui è stata realizzata. E la semplicità dell’arte antica rispetto a quella contemporanea è un’idea sbagliatissima che circola nella testa di molte persone. La gente dice: “Io l’arte antica la capisco, mentre quella contemporanea no”. Ma capire l’arte antica significa conoscere la situazione politica, geografica e culturale di quell’epoca. Significa conoscere il significato che certe parole o certi soggetti avevano in quel periodo. Mentre se voglio capire Jeff Koons è sufficiente che io guardi un telegiornale durante le elezioni americane: tutti quelli che sono lì ad agitare bandierine sono gli stessi che in garage hanno il tagliaerba e il palloncino a forma di cagnolino comprato alla fiera nel Minnesota. Raffaello è contemporaneo all’inizio del 1500, così come Warhol lo è negli Anni Sessanta del Novecento.
Colpisce nei tuoi spettacoli la disinvoltura con la quale esprimi in modo semplice concetti piuttosto complessi come i meccanismi del mercato, le vite degli artisti, le vicende private intorno alle singole opere. Come avviene questo processo di semplificazione che fa di te un seducente divulgatore?
La semplicità non è banalità, ma riduzione di complessità. Io ci ho lavorato tutta la vita. Se dico “l’oggetto decontestualizzato crea un cortocircuito semantico” lo capiscono in 18; se dico che una bicicletta dentro una biblioteca suscita in noi un certo stupore, lo capiscono in 180. Se parlo dell’astrattismo di Kandinskij, lo faccio sedendomi al pianoforte, perché la musica è linguaggio astratto; se racconto l’action painting di Pollock imbraccio la chitarra elettrica e suono alla maniera di Hendrix, perché entrambi escono dal modo tradizionale di impugnare pennello e strumento. Se sostengo che l’arte è una questione di linguaggio che si trasforma pur rimanendo se stessa, leggo prima Leopardi e poi Sandro Penna.
Dopo tante performance dal vivo sei in grado di tracciare un identikit del tuo pubblico? Chi sono i tuoi spettatori e che cosa cercano, secondo te?
Ci sono ragazzi e adulti, gente anziana, addetti ai lavori e gente che non ne sa nulla. Ci sono gli scettici e ci sono quelli che siccome hanno letto Wöllflin o Roberto Longhi, Alois Riegl o Bernard Berenson, vengono a sentirmi per vedere dove sbaglio. Ci sono persone innamorate dell’arte che trovano interessante e coraggioso fare uno spettacolo che parli di quello. Che cosa cercano? Che io riassuma quello che è già stato scritto in milioni di pagine nei testi di storia dell’arte unendo il sapere al sapore. Perché se metto solo il sapere faccio una conferenza; se metto solo sapore faccio dell’intrattenimento.
Fai anche delle lezioni davvero estemporanee, Arte in autostrada, dove guidando racconti qualcosa sull’arte, gli artisti o una singola opera. Come scegli gli argomenti e come il prepari?
Mi vengono in mente guardando dal finestrino. Se vedo un distributore di notte, con quelle geometrie gialle, rosse e blu, penso a Mondrian; se faccio benzina e il tipo al distributore ha un tatuaggio tribale, parlo di Dubuffet e o di Basquiat; se vedo uno con i jeans rotti, mi vengono in mente i sacchi di Burri; se tra me e l’automobile di fronte c’è uno spazio di trenta metri, parlo dello spazio in pittura; se è notte e guardo le stelle, racconto Fontana e i tagli. Per me l’arte è dappertutto!
So che sei anche un collezionista. Dimmi cinque opere che vorresti nella tua collezione, senza limiti di budget
Caduta di Iperione di Cy Twombly; Ritratto di Ross in L.A. di Félix González-Torres; Il ritorno del figliol prodigo di Rembrandt, Apollo e Marsia di Tiziano; Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto.
Dici che l’arte non è tenuta a dare emozioni ma uno spettacolo dal vivo gioca anche con le emozioni del pubblico. Quali sono i passaggi in cui lo vedi “emozionarsi”?
L’arte deve anche dare emozione. Ma non solo quella. Altrimenti anche un tramonto o la foto di un figlio sarebbero opere d’arte. Io sono più per il cuore intelligente. La gente si emoziona quando capisce che sei fortemente collegato con quello che dici. Che non vuol dire recitare o recitare bene. E neppure dire cose melense e furbe. Essere collegato significa “sentire” e “far sentire”. Il pubblico, questo, lo avverte. Il palcoscenico del teatro non perdona.
Il tuo atteggiamento verso l’arte è piuttosto dichiarato. Un po’ meno quello verso gli artisti, come se tu prestassi più interesse verso il prodotto piuttosto che il produttore. Lo fai perché è l’opera che parla, o preferisci evitare il confronto diretto?
Lo faccio perché sono cresciuto ascoltando musica italiana evitando di conoscere i miei cantanti preferiti. L’opera d’arte è una cosa. La vita è un’altra. A me non interessa se un artista ha avuto la vita maledetta o piena di agi e maggiordomi. Non mi interessa se uno è una pessima persona o un brav’uomo. Quello che conta, se parliamo d’arte, è l’opera. Non m’interessa la trama. Mi interessa il linguaggio.
Come reagiscono gli artisti ai tuoi spettacoli? Hai mai avuto qualcuno nel pubblico davvero specializzato nella materia?
Sì, certo. Ho avuto professori che mi hanno invitato nei loro istituti a parlare d’arte. Ho avuto critici d’arte e collezionisti. Quello che dico è frutto di ricerche e di letture approfondite, non invento niente, al limite azzardo qualche mia interpretazione.
Chi sono secondo te i maggiori responsabili di questo scetticismo generale nei confronti dell’arte contemporanea? Chi e in cosa ha sbagliato?
Uno dei motivi per cui la gente non accetta Cattelan o Hirst, è perché le mancano dei passaggi fondamentali. Ho scritto da qualche parte che l’arte assomiglia a una telenovela. Se ti perdi delle puntate, dopo non capisci più perché lei si è messa con lui o perché lui è fallito o si è suicidato. L’arte, per secoli, è stata la telenovela. La gente la seguiva, si appassionava. L’arte era biblia pauperum per gli analfabeti. A Pisogne, sul lago d’Iseo, c’è la chiesa di Santa Maria della neve con gli affreschi del Romanino che Giovanni Testori definì Cappella Sistina dei poveri. La gente andava lì e vedeva; andava lì e capiva. L’arte era mezzo di comunicazione per la Chiesa; per gli imperatori; era status symbol per i borghesi post rivoluzione francese. L’arte faceva mondo. Poi le cose sono cambiate. E l’arte è diventata una questione di linguaggio. Senza però fare mondo. Ci siamo persi dei passaggi… Duchamp, Malevič…, Rothko, Klein, Flavin… Chi ha sbagliato? Chi ha cambiato canale e, al posto di continuare a seguire la telenovela, si è messo a seguire altro: sport, politica, cucina, gossip. Chi ha sbagliato? Chi, gestendo un canale, anziché parlare di Cézanne o De Kooning, ha preferito mostrare il Barocco o Canaletto. Chi ha sbagliato? Nessuno. Semplicemente, la telenovela è finita.
Perché è importante che il grande pubblico cambi atteggiamento nei confronti dell’arte contemporanea?
Perché altrimenti resta antico. Perché “essere moderni significa rendersi conto di cosa non sia più possibile” (Roland Barthes).
L’arte produce immagini e le immagini si prestano a diversi racconti. Quanto ritieni che le tue siano interpretazioni personali dell’opera e quanto invece delle lunghe didascalie raccontate dal vivo ma in fondo scientifiche e veritiere?
Di scientifico non c’è nulla. La tempesta di Giorgione, ancora oggi, è oggetto di interpretazione da parte di studiosi che non hanno ben capito chi siano i due protagonisti. E questo vale anche per molti altri dipinti antichi. A volte ci sono le fonti. A volte no. Io mi attengo a quello che trovo scritto. E poi aggiungo del mio. Senza però inventare niente…
Cinque consigli a chi non ne capisce niente per approcciare e godere dell’arte contemporanea.
Primo consiglio: guardare un telegiornale per rendersi conto che se nessuno dipinge più Giuditta e Oloferne come Caravaggio è perché ci pensa già il boia dell’Isis a far girare immagini come quelle.
Secondo consiglio: nelle librerie ci sono centinaia di libri che spiegano perché i tagli di Fontana sono da considerarsi opere d’arte. È sufficiente entrare, aprirne uno e leggere il capitolo dove se ne parla.
Terzo: L’arte contemporanea non è un complotto contro la gente, ma un modo per farla pensare diversamente.
Quarto: l’arte è un linguaggio. L’emozione una conseguenza.
Quinto e ultimo: l’arte non è fantascienza. Non contano gli effetti speciali. L’arte è un effetto normale. Perché appartiene alla vita.
Che cosa ci si guadagna a includere il pensiero contemporaneo nella vita di ogni giorno? In che modo conoscere l’arte può esserci utile, e in che modo è stata utile a te?
Ti rispondo con una frase di Alain Finkielkraut: “L’opera d’arte non appartiene alla categoria dell’utile. Se vogliamo determinarne il valore, non dobbiamo quindi chiederci a che cosa possa servirci, ma da quale automatismo di pensiero possa liberarci”.
L’incarico dei tuoi sogni. Quello al quale dedicheresti la vita.
Parlare di Malevič da Barbara d’Urso.
Qual è la cosa più importante che vuoi che la gente capisca dell’arte contemporanea?
Che non è una presa in giro. Almeno non sempre. O comunque lo è nella misura in cui lo può essere anche un modo sbagliato di fare politica o altro. Ci sono opere maggiori e opere minori; artisti seri e artisti seriosi. Come accade anche negli altri ambienti, del resto.
Qual è la cosa più importante che hai imparato dall’arte contemporanea?
Che le cose non sempre stanno come appaiono.
‒ Alessandra Galletta
Milano, 20 marzo 2018
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