Archetipi e armonie. Intervista a Daniela Bertol
L’artista, architetto e designer originaria di Roma porta nella sua città una riflessione visiva su geometria e strumenti tecnologici, armonia e pratiche meditative.
Uno spazio raccolto di forma ottagonale, a pochi passi dai gradini di Trinità dei Monti, è la cornice della mostra Daniela Bertol. Archetipi e Armonie, curata da Silvia Bordini e Diletta Borromeo. Siamo nella Galleria Unicorno, ricavata all’interno di un’attività commerciale dedicata all’arte della tavola, un luogo singolare che ha scelto di riservare uno spazio a mostre di arte e design. Qui incontriamo Daniela Bertol (Roma, 1958), artista, architetto e designer che dall’Italia si è trasferita a New York già nel 1986. Da quel momento la sua ricerca, basata da sempre sull’uso delle nuove tecnologie, si è arricchita fino a includere installazioni di Land Art e performance.
Partiamo dal titolo di questa mostra parlando di quelle forme archetipiche che da trent’anni sono al centro del tuo lavoro. In questo caso lo spazio espositivo è dominato da un grande icosaedro da cui pende la sagoma di un Uomo Vitruviano. Che significato ha?
Ho molto lavorato, anche in video e altri formati multimediali interattivi, sui solidi platonici, cioè le uniche forme che presentano simmetria nelle tre dimensioni. In questa mostra l’icosaedro, che è alla base dell’installazione Movement Infrastructure, si relaziona con uno spazio molto connotato che, oltre ad avere una pianta ottagonale, è sormontato da una cupola. L’armonia geometrica di queste forme è inoltre sottolineata dall’Uomo Vitruviano nel quale, come nell’icosaedro, possiamo ritrovare le leggi della sezione aurea. Ho molto studiato questi concetti, fino a farne oggetto della mia recente tesi di dottorato dal titolo Form Mind Body Space Time: The Geometry of Human Movement.
A proposito di movimento, l’icosaedro è anche lo spazio in cui è svolta la performance di inaugurazione della mostra.
Non solo: è lo spazio della mia pratica di movimento quotidiana. Da forma geometrica ideale, ha acquisito una concretezza fisica diventando, nel mio lavoro, un contenitore-contenuto di movimento. In realtà fu già Rudolf Laban, artista e coreografo, ad applicare le proprietà geometriche dell’icosaedro alla danza. Io ho recuperato e approfondito queste ricerche esplorando i vertici di questa forma geometrica in una pratica di movimento suggerita dalla forma stessa.
Quando parli di pratica di movimento, naturalmente ti riferisci allo yoga che è diventato, negli ultimi anni, parte della tua espressione artistica, come nella performance di inaugurazione della mostra. Come è nato questo interesse?
In questi ultimi anni ho attraversato un periodo estremamente difficile, dovuto a un divorzio traumatizzante e al trovarmi vittima di violenza domestica e bullismo. Passare attraverso degli stati emotivi abbastanza intensi ha fatto in modo che mi ponessi delle domande sull’esistenza e mi è venuto in soccorso il concetto di epoché in Husserl, il muoversi come elemento di esistenza: ho un corpo e per questo esisto. È un concetto che deriva dal cogito ergo sum cartesiano: sto male, ma il mio corpo mi dice che esisto e respiro, che ho un controllo nonostante nella mia vita il controllo sia assunto da tanti altri fattori. Il movimento è diventato così una terapia per reagire a queste situazioni di prevaricazione, una terapia basata su meditazioni dinamiche generate da posture e movimenti guidati dalla geometria della Movement Infrastructure, l’icosaedro appunto.
Che significato hanno queste pratiche all’interno dalla tua ricerca artistica?
Affermare la presenza del mio corpo in un progetto artistico ha rappresentato il riuscire a verificare una serie di incarnazioni del pensiero, del resistere, dello stare male che viene catarticamente risolto attraverso la geometria e l’armonia del movimento. Il movimento diventa quasi una verifica dell’esistere, una sorta di preghiera con il corpo che di nuovo si rapporta alla geometria.
La geometria è da sempre presente nei tuoi lavori, indagata dapprima nell’immaterialità dell’immagine elettronica e poi nello spazio concreto della natura. Tutt’oggi le nuove tecnologie continuano a svolgere un ruolo primario nella tua produzione, come nelle opere esposte in mostra. Ce ne puoi parlare?
Negli ultimi anni, le esperienze di vita mi hanno portato a trovare rifugio nella matematica, in queste forme ideali, belle, precise, perfette, fredde, che rispondono alla logica umana. Ma in realtà mi occupo da sempre di geometrie, esplorando le transizioni dal mondo ideale della matematica ‒ realtà numerica e astratta ‒ alle rappresentazioni percepibili. Nell’ultimo decennio la transizione dal mondo digitale agli oggetto fisici, con corporeità tridimensionale e tangibilità, è stata facilitata dalla tecnologie di rapid prodotyping, quali laser cutters, CNC, stampanti 3D. Non è stata solo un’innovazione tecnologica ma anche sociale, con il movimento dei “makers”, al quale ho attivamente partecipato in occasione delle Maker Faire di New York e Roma.
Spirali, curve elicoidali e altre forme sono generate da funzioni matematiche, ma allo stesso tempo trovano un corrispettivo in natura. Cosa rappresenta per te questo legame?
L’icosaedro è solo un esempio della simbiosi tra mente, geometria e natura. Un altro esempio è la filotassi, la forma del girasole che risulta dalla serie di Fibonacci. O il nautilus, che nella sua crescita segue la spirale logaritmica. Quello che mi affascina è come queste forme naturali possano essere ricreate da un processo numerico. Le varie spirali e lo scroll esposti all’Unicorno sono stati realizzati con algoritmi su cui si basano programmi che girano su software di CAD e modellazione tridimensionale. I rapporti numerici si trasformano in forme digitali che a loro volta diventano oggetti o stampe. Queste forme sono inoltre alla base della mia pratica meditativa, ricollegandosi ai mandala di Jung, il che ci riporta ancora una volta al concetto di archetipo.
Ma ci riporta anche all’armonia geometrica ricercata attraverso le pratiche di espressione corporea, come in Finding the Axis Mundi.
Finding the Axis Mundi è una sequenza di movimenti che pratico tre volte al giorno. Nei popoli antichi, l’asse del mondo, secondo gli studi di Mircea Eliade, connetteva la presenza umana con la terra e il cielo ed era spesso espresso con una costruzione verticale, come un totem, una torre o un obelisco, che celebrava l’insediamento umano. Il mio axis mundi è invece dinamico, un filo immaginario che connette il mio ventre con il centro della terra, e si estende dal mio cranio verso il cielo. Questa sequenza di movimenti è il punto di arrivo di una ricerca sui legami tra corpo, geometria e movimento, una ricerca artistica, teorica, ma anche interiore.
‒ Paola Lagonigro
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