Scolpire l’ambiente. Intervista a Hilario Isola
Parola a Hilario Isola, autore degli scatti confluiti nel libro “Oh... My God!”, presentato domani, 22 marzo, alla Libreria Bodoni / Spazio B di Torino. Un viaggio attraverso la scultura e il suo dialogo con l’ambiente.
La scorsa primavera sei stato in Myanmar, dove un terremoto ha avuto effetti devastanti – fra l’altro – anche su alcune pagode che sono fondamentali per il Buddhismo. Le fotografie che hai scattato però non mostrano rovine, bensì un approccio molto poco occidentale alla ricostruzione. Ce lo racconti?
Canne di bambù, tappetti di paglia, teli e tubi di plastica riciclati sono alcuni dei materiali utilizzati per costruire impalcature e cercare di arginare i danni del terremoto sui quasi 200 templi danneggiati nella valle di Bagan. Tutto realizzato in fretta e furia dagli abitanti locali senza grandi pianificazioni, una sorta di pronto soccorso architettonico.
Al confine fra arte, architettura e paesaggio, quelle strutture in bambù – o meglio le fotografie che hai realizzato – sono diventate protagoniste di un libro spillato, edito da Humboldt Books. Com’è nato il progetto, che presenterai a Torino domani 22 marzo?
Nel libro d’artista Oh… My God! ho raccolto i risultati più interessanti di questa combinazione di architettura buddista antica, forze naturali e strutture effimere. Impossibile non vederle come enormi sculture dalle forme organiche che si integrano e sembrano germogliare da un paesaggio altrettanto onirico. La prima volta che le ho viste sono caduto in una sorta di trance, erano stranissime ma al contempo famigliari soprattutto con il mio lavoro e la mia pratica. Avrei voluto realizzarle io. Questo libro è un tentativo di appropriarmene o almeno di farle diventare materiale di lavoro.
I pensatori “canonici” hanno tutti una fisionomia ben riconoscibile, da Socrate a Nietzsche e oltre. I loro volti sono iconici e al tempo stesso precisi come una topografia. La serie di microsculture che hai intitolato I filosofi sono un pendant solo apparentemente paradossale alla Land Art?
La serie I filosofi nasce dalle stesse ossessioni che muovono le altre mie opere di arte ambientale: la sottrazione di elementi (in questo caso i quadri), lo svuotamento dello spazio, l’attenzione dello sguardo come mezzo per misurare e superare i limiti percettivi e culturali che ci separano dalla natura e dall’arte. Nelle stanze che sono riuscito a svuotare installando i filosofi, rimane molto poco, al limite del visibile ci sono i volti scolpiti sulle capocchie dei chiodi. Li ho realizzati molto precisi e caratterizzati perché portino lo spettatore a spingersi a guardare da vicino e con attenzione per poi rendersi conto, come quando si è di fronte a un paesaggio, che è impossibile abbracciare tutto. Qualcosa ci sfugge.
La frustrazione porta a invertire l’occhio in dentro, a ricordare, a prendere appunti e a riempire i vuoti con l’immaginazione.
Passi da un punto all’altro del “gruppo di Piaget” che Rosalind Krauss elabora nel 1978 a proposito della “scultura nel campo allargato”. E così ci sono veramente degli earthwork nel tuo percorso recente. Spiegaci cos’è l’Atelier del Camouflage e da quali riflessioni emerge.
Pur legandosi a quel contesto storico e artistico, non saprei se i miei ultimi lavori di arte ambientale si possono definire earthwork e forse nemmeno work. La loro qualità è infatti proprio quella di non essere, di scomparire nel paesaggio. Atelier del Camouflage parte da una lunga sperimentazione avvenuta nei laboratori di ricerca delle aziende Sublitex e Sinterama che mi ha condotto alla creazione di un materiale nuovo, un tessuto e una stampa ecologici resistenti all’esterno. Studiando la capacità di mimetizzarsi degli animali e le tecniche maturate in campo militare dall’uomo ho iniziato a lavorare sul camouflage come arte per restaurare il paesaggio. Nelle Langhe, ad esempio, ho fatto sparire un muro di cemento armato di 500 mq che deturpava la vista della splendida collina vitata su cui si erge il paese di La Morra. I colori e le immagini stampate su tessuto li cerco nella storia della pittura: un particolare di un quadro di Pellizza da Volpedo, le tempere romantiche di Bagetti. I paesaggisti tornando idealmente alla fonte da cui traevano ispirazione restituendo colore e forse un senso alle ferite inflitte dal cemento e dalla stupidità umana.
Fra consunzione dell’immagine e suo nascondimento ruota il progetto The Sleeper e in fondo anche il tuo studio, collocato in un antico mulino ad acqua. Il tuo però non è il classico approccio apocatastatico, con l’invocazione di un trauma che renderà la natura finalmente libera dal cancro umano. Mi sembra che tu nutra ancora una grande fiducia nel dialogo fra noi e il nostro ambiente, o sbaglio?
Trovo più interessante sperimentare modi alternativi per ritrovare un contatto vero con la natura più che perdermi in un pessimismo catastrofico. Da alcuni anni sono tornato a stabilirmi in campagna dove produco vino e ho trovato studio in un antico mulino ad acqua restaurato e ora anche energeticamente indipendente grazie a una grande ruota motrice in legno. Un osservatorio privilegiato sulla natura e anche però sugli effetti devastanti del global warming. In questo contesto sto traendo spunto e materiali di lavoro da pratiche extra artistiche come l’apicultura, la vinificazione e le produzione di formaggi, dove posso misurare da vicino il cambiamento climatico e culturale in corso e sperimentare un approccio alla materia più appassionante e radicato. Sto aprendo il mio studio a collaborazioni con musicisti, contadini, scienziati e apicultori per realizzare esperimenti spesso effimeri e fallimentari: sculture in formaggio, installazioni sonore di mosto, performance con migliaia di api.
Quali sono, dunque, gli intenti del progetto?
In The Sleeper, l’ultimo progetto personale che ho realizzato alla Galleria Mauro Mauroner di Vienna, ho provato invece a usare la consunzione e il decadimento della materia fisica come forma per plasmare sculture. Un tentativo di “risvegliare” oggetti e volti sospesi, intrappolati nell’inconscio personale e collettivo, sommersi dall’ignoranza e afflitti dalle malattie del mondo contemporaneo. Un modo anche per superare questo conflitto con l’ambiente è forse iniziare semplicemente a vedere e a osservare, una forma di meditazione che l’arte forse può in parte indirizzare attivando processi di immedesimazione ed empatia.
‒ Marco Enrico Giacomelli
Hilario Isola ‒ Oh… My God!
Humboldt Books, Milano 2017
Pagg. 32, € 12
ISBN 9788899385361
www.humboldtbooks.com
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