Ripensare il medium? Intervista con Matteo Fato
Parola all’artista che ha fatto della pittura il suo marchio distintivo e che rappresenta il punto focale di questa lunga chiacchierata. Fra una mostra in Abruzzo e un’altra nelle Marche.
Matteo Fato (Pescara, 1979) propone una selezione di lavori recenti negli spazi della Fondazione Malvina Menegaz, a cura di Simone Ciglia, ed è protagonista di un’altra mostra alla Galleria Nazionale delle Marche a Urbino. È l’occasione per un dialogo con l’artista sul progetto e sul pensiero alla base del suo lavoro.
Vorrei che partissimo dal principio di questa nuova mostra, che è all’insegna del dialogo con le opere di altri artisti, alcuni storicizzati, della collezione: com’è nata e come l’hai strutturata? E cosa vuol dire per un giovane artista relazionarsi con uno spazio in cui vivono già altre opere, di altri artisti?
L’idea della mostra nasce di base come progetto di laboratorio didattico creato dalla Fondazione Malvina Menegaz di Castelbasso, in Abruzzo, per coinvolgere le scuole del loro territorio e non solo; quella di quest’anno è solo la prima edizione di un progetto che proseguirà nel tempo, sempre a cura di Simone Ciglia. Credo sia una iniziativa molto importante per poter creare una coscienza culturale della storia dell’arte contemporanea del Novecento. Mi è stato chiesto di ragionare su un tema che in questo caso era “La città ideale”, che legava insieme alcune opere della collezione. Ho pensato subito di presentare un progetto a me molto caro, nato durante una residenza di tre mesi svoltasi sui Fiordi della Norvegia presso il centro NKD (Nordic Artists’ Centre Dale) nel 2015.
Le opere realizzate in residenza sono state presentate poi nella mia ultima personale presso la Galleria Michela Rizzo a Venezia l’estate scorsa; hanno quindi avuto due anni di gestazione e questo perché avevo bisogno di trovare il loro giusto collocamento nella storia del mio lavoro, forse per questo lo ritengo importante, poiché penso metta un punto fondamentale sulla mia ricerca. Avere modo di relazionarmi con il lavoro di altri artisti, della mia e di diverse generazioni, è stata una grande opportunità di crescita ma anche una grande opportunità per poter rileggere ciò che avevo fatto attraverso gli “sguardi” delle opere di altri artisti.
Come nascono esattamente questi dipinti? In Norvegia mi pare che tu abbia vissuto un periodo di grande immersione nella natura.
Questi dipinti nascono da suggestioni date da un’esperienza a stretto contatto con l’ambiente naturale, quasi al limite della perdita di coscienza del concetto di “città” e vogliono indagare l’idea di “Natura Morta” trovata all’interno di un ambiente naturale come un bosco; Vasari definiva la natura morta una “Cosa Naturale”. Voglio quindi in questo caso anche riflettere sull’immagine di cosa conteneva una città prima di essere tale, e cosa dovrebbe quindi sempre mantenere. Un punto fondamentale del mio lavoro è rappresentato da come ogni opera “abita” lo spazio in cui viene collocata. Come per l’architettura di una città, ogni opera ogni dipinto, deve trovare il suo equilibrio ideale nello spazio che occupa; per questo ritengo fondamentale “l’installazione della pittura”, come se ogni dipinto non sia ancora finito fino a che non abbia trovato il luogo in cui vivere. Ogni città può essere ideale per l’uomo, ogni città può contenere un luogo familiare, così come ogni spazio può essere occupato dalla pittura.
Com’è strutturato l’allestimento della mostra alla Fondazione Menegaz?
Nelle stanze della Fondazione Menegaz ho voluto inserire opere naturalmente appoggiate al suo interno; quasi a invadere la collezione della Fondazione stessa, i dipinti presentati vengono esposti con la loro cassa da trasporto, un elemento divenuto molto importante nel mio lavoro, proprio perché rappresenta l’architettura dell’opera stessa. Ogni opera, all’interno della sua cassa, mantiene uno spazio che abita in ogni luogo, senza perdere in questo modo il “senso di orientamento”.
Ho inoltre presentato un piccolo paesaggio realizzato sempre in Norvegia; un’opera molto intima mai esposta prima; questo dipinto rappresenta il “Museo Personale” che contiene la collezione delle mie esperienze, durante la realizzazione di queste opere. Ma racchiude anche l’idea di un Museo che può e deve trovarsi anche in una città nascosta in mezzo a una foresta. Ho pensato subito alle parole di A. Sokurov nel film Francofonia: “Uno stato ha bisogno di un museo per esistere…”.
Castelbasso è un piccolo borgo, ma un grande miracolo culturale penso, perché rinato grazie a una Fondazione per l’Arte. Ogni città per essere tale deve contenere al suo interno un “museo”; il museo è ciò che rende vivo ogni luogo abitato, perché ci dona la coscienza dell’immagine. Il museo contiene la collezione della memoria dell’uomo. Credo che ogni uomo abbia bisogno di un museo, per conoscere chi è stato, e quindi capire chi è adesso.
E la tua mostra personale nel Palazzo Ducale di Urbino com’è?
Eresia (del) Florilegio è il titolo che raccoglie le opere per la mostra di Urbino; si tratta per me di un momento molto importante per tanti motivi. Urbino è la città dove mi sono formato, la città iN cui ho capito di non avere scelta; ha segnato quindi un inizio, e anche una fine. Ma la cosa più bella è che continua farlo, anche solo entrando nelle meravigliose stanze di Palazzo Ducale. Il ciclo presentato a Urbino trae origine dalla città stessa; difatti nel 2011 avevo realizzato proprio a Urbino una personale a Casa Raffaello dal titolo (Osservando la Parola), sempre a cura di Umberto con cui il dialogo sul lavoro è sempre stato fondamentale; in quella occasione sono nati due lavori che in seguito si sono rivelati molto importanti, tanto da divenire una sorta di ciclo, qualcosa che ri-torna in determinati momenti della ricerca fino a oggi per circa 7 anni. La serie di sculture dei (cavalletti) in legno e la serie di dipinti dei (busti). Ora per la prima volta ho voluto raccogliere i cavalletti insieme per rivederli, e chiudere in questo ritorno anche la serie di dipinti con un nuovo quadro realizzato per l’occasione insieme anche a una incisione calcografica.
Che evoluzione hanno subito queste opere?
Queste opere negli anni seppur quasi composte della stessa immagine/parola cambiavano come cambiano a volte i ricordi. Ma un ricordo che muta è forse un’Eresia? Oppure nel ricordo il “Florilegio”, la raccolta di noi stessi, cresce a nostra insaputa?
Tornando alla frase di Sokurov, penso che ogni uomo raccoglie in se un suo personale Museo/Palazzo che gli permette in fondo di esistere grazie alla “collezione” che racchiude al suo interno. Eresia (del) Florilegio è un’arresa, perché se le mostre, come ti dicevo, aiutano a dimenticare per poter capire e osservare, arriva anche un determinato momento in cui è necessario arrendersi per provare a ricordare, per poter ri-conoscere e visitare con nuovi occhi le stanze del nostro Palazzo.
Il tuo lavoro più recente si è quasi sempre caratterizzato per un’attenzione costante verso il linguaggio della pittura, declinato però attraverso l’installazione, la scultura e una studiata relazione con lo spazio in cui agisce. Questa mostra ribadisce parzialmente questa tua attitudine. Voglio farti una domanda probabilmente molto retorica, ma allo stesso tempo calzante rispetto al tuo lavoro: dove sta andando la pittura oggi in Italia e all’estero?
Credo sia molto difficile poter affermare in che modo si stia muovendo questo linguaggio così importante, in fondo, per la nostra cultura. È innegabile che in Italia la pittura sia tornata a rivestire un ruolo importante nelle arti visive contemporanee e questo non può che far piacere; ma è un piacere che forse nasconde un problema… Fino ad alcuni anni fa la pittura non veniva affatto considerata in determinati sistemi e, anche dal punto di vista del mercato, per un giovane artista fare pittura era molto difficile. Non c’è dubbio sul fatto che questo non preclude la scelta di fare pittura a oppure no. Le stesse difficoltà probabilmente sono state attraversate anche da altri linguaggi. Ma bisogna dire però che la pittura in Italia (all’estero forse questo problema si sente meno, senza prendere in esame nessun Paese in particolare) vive un paradosso importante; mi chiedo, perché c’è sempre bisogno di una “giustificazione” o di un “pretesto” per parlare di pittura?
Perciò cosa rappresenta questo linguaggio?
La pittura è stata, lo è adesso e sempre lo sarà, un importante riflesso del nostro tempo; quindi bisognerebbe semplicemente smetterla di trovare scuse per discuterne oppure no, ma trattarlo come ogni altro linguaggio. Poi questo penso crei anche dei problemi nell’utilizzo del linguaggio; credo che la cosa più importante da chiedersi sia sempre: sto utilizzando la pittura perché non ho altra scelta? Semplicemente non si hanno altre parole per dirlo.
Mi viene da pensare a quello di cui parlava Deleuze, ne L’immagine-movimento e L’immagine-tempo: Deleuze, parlando di movimento dell’immagine, lo concepisce come un passaggio regolato da una forma all’altra, cioè in ordine delle pose o degli istanti privilegiati; e ci dice che in età moderna la rivoluzione consistette nel ricondurre il movimento non più a degli istanti privilegiati ma all’istante qualsiasi. Ho sempre amato questa definizione pensando alla pittura: l’istante privilegiato. La pittura, il disegno, la loro potenza deriva da questa possibilità di definirsi appunto momenti privilegiati, che evidenziano, più di altro, una qualsiasi condizione e mutazione del nostro tempo. Forse ora siamo in un momento privilegiato e speriamo che duri…
Cosa vuol dire quindi pittura per Matteo Fato?
La pittura rappresenta per me una lente di ingrandimento sul mondo; sono sempre stato interessato all’analisi di un’intesa tra immagine e parola, al momento appena prima che il segno diventi linguaggio riconoscibile. Quel “bilico” rappresentativo in cui il linguaggio viene addomesticato e disciplinato affinché possa trovare posa sul limite della realtà.
Lo studio di Wittgenstein alcuni anni fa mi ha aiutato a rileggere le “parole” scritte durante il mio percorso che avevo lasciato tra parentesi e a rivalutarle: per trovare una nuova dimensione “rallentata” nell’osservazione delle “cose” e dello spazio, cercando di inserire i naturali segni di interpunzione di cui il mio linguaggio aveva bisogno:
“Con i miei numerosi segni d’interpunzione, ciò che in realtà vorrei è rallentare il ritmo della lettura. Perché vorrei essere letto lentamente. (Come leggo io stesso)” [L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, N. d. R.]. Questo mi ha aiutato a capire che la pittura rappresenta in un certo senso la punteggiatura della vita, e ci aiuta a rallentarne “la lettura”, quindi a riflettere meglio su di essa.
A tal proposito, quando e come hai compreso l’importanza del dialogo con medium apparentemente distanti dalla pittura, ovvero quando hai iniziato a confrontarti anche con l’installazione e lo spazio con un approccio progettuale e attivo? Come sai, sono molto legato ai tuoi lavori con le mensole e le casse di legno.
In passato ho avuto la fortuna/sfortuna di realizzare la mia prima personale già durante il primo anno di Accademia (che ho frequentato a Urbino dove ora insegno), da Cesare Manzo, una galleria storica di Pescara; Cesare è stato molto importante nel mio percorso, ho avuto la possibilità di confrontarmi con grandi artisti che venivano a Pescara in occasione dei vari e bellissimi Fuori Uso da lui ideati per quasi vent’anni. Ti parlavo di fortuna/sfortuna perché mi ha dato la possibilità di entrare subito in un meccanismo e di osservarlo, ma, come dico sempre anche agli studenti, credo che questo lavoro debba avere il suo giusto percorso e soprattutto un giusto tempo di maturazione. Ho capito poi nel tempo che le mostre rappresentano per me uno strumento importantissimo che ti permette di “dimenticare” il lavoro che hai fatto.
Ma cosa vuol dire “dimenticare”?
Dimenticare vuol dire capirlo e finalmente osservarlo. Successivamente ho sofferto molto per capire e accettare questo primo importante “fallimento”; non era il momento giusto per dimenticare determinate cose, dovevo ancora conservarle.
Verso la fine dell’Accademia ho avuto quindi un momento che mi ha portato a “smettere” di dipingere per alcuni anni. Sono un pittore e probabilmente il voler affrettare le cose mi ha portato per un periodo ad abbandonare la pittura, forse per rispetto, anche se in testa era sempre come se stessi dipingendo. L’ho messa da parte con l’intenzione e la promessa di riaffrontarla nel modo giusto, come se dovessi farmi perdonare, e ho cercato di confrontarmi con linguaggi per me utili al pensiero della pittura come l’incisione, la video-animazione e soprattutto per molti anni ho studiato la pittura cinese antica legata alla calligrafia. Questo interesse verso la pittura cinese, basata sull’uso della semplice china su carta, spesso su grandi dimensioni, realizzate a terra con dei grandi pennelli, è stato importantissimo ed è durato circa cinque anni. Da qui nasce il rapporto con lo spazio, dal “vuoto” della carta. Yuanji Shi Tao, poeta e pittore cinese del XVII secolo, scriveva che “il vuoto sviluppa la percezione della profondità e la cosa dipinta si fa mondo. Il vuoto non è il nulla. Un pittore ci si muove dentro“. Questo mi ha aiutato a rileggere la pittura nell’installazione, a dare valore al vuoto che circonda l’opera. Circondare la pittura di supporti come le casse o le mensole di cui parli rappresenta anche un mezzo per apprendere come ricordare sempre nel modo giusto l’importanza della pittura.
In un momento di globale iper -produzione artistica, in cui vige spesso una rielaborazione (soprattutto in determinati ambiti creativi) di istanze già avviate nei decenni precedenti, che valore e prospettive ha il dispositivo “opera d’arte”?
Partiamo dal presupposto che l’arte come la filosofia, soprattutto oggi, potrebbero essere considerate campi ”inutili”, ovviamente in senso positivo; quindi bisogna essere consapevoli che l’individuo artista per la società appare come un soggetto inutile perché quello che produce non ha una vera funzione appunto utile per il sistema; ma allo stesso tempo il dispositivo prodotto diviene indispensabile. Forse è tutto lì; comprendere questo paradosso. Come nel paradosso di Eubulide, (del mentitore): Un uomo dice: “Io sto mentendo”. Mente o dice il vero? L’Arte forse è esattamente così. Paradossalmente quindi, in questo senso, è indispensabile perché penso che in questa inutilità si riveli un luogo di sincerità di cui noi tutti abbiamo bisogno.
Vivi in una grande casa-studio piena di stanze a Pescara e insegni in Accademia a Urbino. Quanto tempo dedichi alla tua ricerca d’artista e alla pittura in studio?
Ho un rapporto molto particolare con il mio studio, che appunto è anche la mia casa; particolare perché è forse di amore/odio, a volte riempio lo studio, a volte invece, come in questo momento, vorrei buttare tutto quello che ho fatto e che ho davanti agli occhi. Vedere un vuoto nuovo da riempire.
Hai però passato alcuni periodi in residenza, fuori dal tuo studio…
Sì, sono state molto importanti come esperienze. Improvvisare un nuovo luogo di lavoro è bellissimo e mi porta sempre a trovare nuovi occhi. Se mi chiedi quanto tempo dedico, forse tutto quello che ho, ma non dipingo tutti i giorni, non riesco; ho bisogno di un tempo molto lungo di riflessione prima di decidere che sia giusto iniziare qualcosa, dipingere è anche fare una scelta e devo essere sicuro di volerla fare. Dedico moltissimo tempo alla preparazione dei supporti, della tela; utilizzo tecniche come la colla di coniglio, ma portandole a volte a una estremizzazione; dando moltissimi strati leggeri, succede che una tela impieghi anche un mese per venire preparata e il supporto diviene quasi un monocromo, volte resta tale, e a volte viene “infranto” dalla pittura.
Cosa vuol dire insegnare per un artista giovane come te?
L’attività di docente a Urbino penso sia una grande fortuna, perché mi permette di dialogare di ciò in cui credo con persone che vivono della stessa “fede” e si trovano in un luogo perché vogliono esserci e (il più delle volte), non hanno scelta, possono essere solo lì. Perché il vero “artista” non ha scampo dall’esserlo. Tornando alla citazione di Wittgenstein di prima, l’Accademia penso possa essere identificata come dizionario di questi segni della punteggiatura. In ogni linguaggio è importante trovare la giusta parola per parlare, ma ancora più importante credo sia ragionare sul tempo di cui questa parola ha bisogno per essere pronunciata. L’Accademia è anche questo tempo; cosa ancora più importante, rappresenta un luogo e un tempo in cui è fondamentale poter conoscere il proprio “fallimento” e in cui bisogna fallire, anche perché poi al di fuori di essa la cosa è meno concessa, specialmente se si sorride troppo davanti al nostro operato. Di sicuro quella di docente è un’attività impegnativa, non tanto per il tempo che richiede, ma per l’importanza delle questioni che vengono affrontate. Ma è di sicuro anche un impegno bellissimo. Credo poi che per essere docenti in Accademia bisogna prima di tutto “non esserlo”; perché prima di questo è necessario esistere come professionista del proprio linguaggio che lavora attivamente nel proprio tempo.
Cosa rappresenta quindi per il tuo percorso l’Accademia di Belle Arti di Urbino?
L’Accademia di Urbino penso rappresenti una perla nel panorama delle Accademie italiane per le professionalità che vi si possono trovare e come bellissimo luogo di dialogo culturale; per me – prima da studente e poi anche da docente – ha rappresentato un momento fondamentale in cui si sono venute a creare le basi della mia ricerca; ancora adesso ri-torna ogni giorno, perché le certezze che posso illudermi di avere ri-tornano sempre a essere “inutili”, grazie agli studenti stessi, che ci ricordano di non smettere mai di esserlo anche noi studenti.
Cosa ti ha insegnato l’Accademia?
Un luogo come l’Accademia ci insegna che è importante mantenere un’etica nel linguaggio, qualunque esso sia, e nella sua storia. Non che questo necessariamente implichi la consapevolezza totale del proprio operato (forse è anche giusto non averla mai totalmente?), ma per me un “artista” deve affrontare nel profondo le ragioni del proprio fare. In Accademia è possibile; per arrivare a questo esistono strade buone o cattive. Non si lavora per ispirazione (che è un po’ una favoletta lo sappiamo tutti) e forse nemmeno per il bisogno di fare. Penso che esistano parole che bisogna avere il coraggio di pronunciare per scoprire cosa si sta dicendo. Inevitabilmente ogni volta si deve ricominciare da zero. È la cosa più importante, ma anche credo la più difficile: “Essere puntuali a un appuntamento che si può solo mancare”, come ha scritto Agamben in Che cos ‘è il contemporaneo?; ma questo appuntamento deve prima di tutto essere “mancato” nel proprio tempo, perché, come scrive sempre Agamben: “Contemporaneo è colui che riceve in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo”. E l’Accademia è un luogo del contemporaneo, lo è adesso e lo è stato per tante generazioni di artisti.
Chi sono invece i tuoi maestri, ideali e reali? E non parlo per forza di arte.
A questa domanda non so mai come rispondere, ma voglio risponderti in modo diverso dal solito senza stare a cercare di fare una lista mentale nei ricordi, che nel tempo cambia sempre.
Sono stati tanti e anche pochi; forse il più grande maestro ideale che si può avere (e non parlo per forza di arte) è il tempo; la coscienza del proprio tempo, passato e presente e di quello che abbiamo a disposizione. Il maestro reale invece è l’errore.
Progetti per il futuro? Raccontami anche di un progetto che avresti voluto realizzare e che ancora non ha potuto vedere la luce.
Le prossime mostre saranno, il 22 marzo una personale nella Galleria Nazionale delle Marche, nei sotterranei di Palazzo Ducale di Urbino, (denominato Spazio K) a cura di Umberto Palestini; la mostra apre un nuovo ciclo di sei personali per tutto il 2018 raccolte sotto il titolo CAMBI DI ROTTA, sempre a cura di Umberto; poi il 7 aprile una doppia personale con Nicola Samorì a cura di Alberto Zanchetta, nel Museo Casa Testori a Novate Milanese; in estate, a luglio, parteciperò alla seconda edizione di STRAPERETANA [da un’idea di Paola Capata e Delfo Durante e a cura di Saverio Verini, N. d. R.] qui in Abruzzo nel bellissimo borgo di Pereto (AQ); mentre in autunno aprirò una personale nello Studio Museo Francesco Messina (Milano) a cura di Sabino Maria Frassà, mostra derivante dalla vincita del 4° Premio Cramum. Questi più o meno sono i progetti sicuri per il 2018. Un progetto che da sempre vorrei realizzare è una mostra di sole incisioni calcografiche a puntasecca di grande formato; l’incisione è una tecnica che amo da sempre e che ho studiato e in seguito anche insegnato a Urbino in Accademia.
A cosa servono le mostre per Matteo Fato, qual è la loro funzione specifica nella tua ricerca?
Principalmente per me la messa in mostra di un’opera ha anche un valore di “messa al mondo”; per questo, come ti dicevo, diviene un mezzo per poter “dimenticare” nel modo giusto; già di per sé questa parola diviene interessante nella sua derivazione latina in “mente”: dimenticando senza paura di perdere, probabilmente conserviamo nel modo giusto quello che è successo. Sarò noioso ma è bella anche la definizione di questa parola: far sì che il ricordo non pesi attivamente nel nostro spirito. Agnetti ha scritto: “La cultura è l’apprendimento del dimenticare”; in fondo forse le mostre ci donano il giusto “allestimento” dei nostri ricordi. Quando un lavoro esce dallo studio è come un segreto che dev’essere dimenticato; per questo sento il bisogno di ricreare un ambiente che gli si addica e lo possa accogliere sia nello spazio che nella memoria.
Raccontami di questa tua predilezione per le tecniche calcografiche. Si sviluppa parallelamente al tuo lavoro sul fronte della pittura? Nel contemporaneo mi pare che oramai queste tecniche siano finite nel dimenticatoio.
Come per altri linguaggi che ho affrontato, probabilmente anche per l’incisione il significato risiede nel cercare di osservare la pittura non soltanto dipingendo. Tutti noi, nel nostro tempo, siamo inevitabilmente portati a processare le immagini in diverso modo. Non posso esimermi dal considerare che la pittura non sia l’unico modo per riprodurre un’immagine. Impiegare diversi linguaggi vuol essere semplicemente un tentativo di dare maggior valore alla pittura: tutti questi elementi concorrono al fare pittorico, ma non lo raggiungono mai; significa voler mostrare che la pittura è sempre e comunque il linguaggio finale. Quando insieme a un dipinto espongo una fotografia, un collage o anche un neon, sono semplicemente delle “parole”: se fossero isolati non avrebbero senso di esistere. Tutti questi linguaggi hanno valore nel mio caso unicamente perché appartengono alla realtà della pittura; sono inoltre anche un fattore di ricerca personale. Produrre un’incisione è soprattutto un esercizio per la pittura, per ri-osservarla.
Fammi un esempio concreto.
Ad esempio ultimamente ho realizzato delle incisioni partendo da un dipinto già esistente, invertendo la mia prassi consueta secondo la quale l’incisione è un’importante fase di studio prima della pittura. L’idea è quella di imitare un processo del passato, quando l’incisione aveva la funzione di divulgazione dell’immagine dipinta. Inoltre l’incisione ha molto a che fare con la scultura, e come sai è molto importante per me il rapporto con lo spazio e con l’oggetto: l’incisione è togliere, scavare per creare un’immagine. La gestione di un’immagine in questo modo è di aiuto anche nella pittura, che potrebbe essere banalmente il suo contrario. È lo stesso discorso delle chine su carta, su cui ho lavorato: ragionare con il pieno e il vuoto, con il bianco e nero, è stato fondamentale per dipingere oggi. L’incisione è molto importante anche a livello mentale, perché allena a una disciplina. A differenza di altre tecniche, ha regole ben precise, che se non rispettate non producono risultato. Com’è stato per me in passato con la calligrafia, anche l’incisione è una disciplina per la pittura, un processo di preparazione a essa: per osservare la parola “giusta” di cui la pittura ha bisogno. Hai ragione, purtroppo, quando dici che queste tecniche sono andate dimenticate; probabilmente anche per semplici questioni di mercato; ma proprio per questo mi piacerebbe concentrare un progetto su di esse. Anche l’incisione penso sia un mezzo di rivalutazione del passato, e un importante istante privilegiato della storia delle immagini.
Nella tua ultima personale a Venezia, nella Galleria Michela Rizzo a Venezia, e di recente con la mostra in corso a Castelbasso, ti sei molto concentrato sulla pittura-pittura, tralasciando quel rapporto con l’installazione e lo spazio che ha contraddistinto per alcuni anni il tuo lavoro. A cosa stai lavorando adesso, quali prospettive sta indagando attualmente la tua ricerca?
Non so risponderti ancora. Forse in questo momento sto semplicemente cercando di osservare per ricordare tutto quello che è successo.
‒ Lorenzo Madaro
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