FuturDome presenta Guido van der Werve. L’intervista

Il museo indipendente meneghino FuturDome presenta la più completa retrospettiva dell’artista olandese Guido van der Werve. Alla vigilia della performance del 9 aprile, ideata in esclusiva per la mostra milanese, abbiamo intervistato l’artista.

Mesi fa, erano ancora impalcature e cemento vivo. Ora sono scritte a matita sui muri, cavi elettrici, intonachi. Chi non è ancora stato a FuturDome fatica a immaginarlo. Un progetto di housing museale di ISISUF – Istituto internazionale di studi sul Futurismo, nato dalla riqualificazione di un edificio liberty e inaugurato a Milano esattamente due anni fa, fatto di ambienti residenziali in via di ristrutturazione, che ogni volta offre habitat espositivi diversi.
E in questo spazio in divenire è ospitata Auto Sacramental, la quinta mostra di FuturDome, dedicata all’opera di Guido van der Werve (Papendrecht, 1977). Una retrospettiva a cura di Ginevra Bria e Atto Belloli Ardessi, che ripercorre l’evoluzione artistica di un autore che si mette in gioco in prima persona. Ponendo al centro della sua ricerca artistica (film, videoinstallazioni e composizioni musicali) la propria biografia.

Che legami hai con l’Italia e com’è nato il progetto della mostra milanese? Qual è il valore aggiunto di questo progetto rispetto alle mostre passate?
Per caso ho un nome italiano. La mia prima galleria è di Roma. E prima di frequentare la scuola d’arte ho studiato archeologia classica. Ho all’attivo un paio di personali, ma questa è la prima in cui espongo il mio lavoro completo, a partire dal 2001, quando ero ancora a scuola. La mostra a FuturDome mette in luce la mia evoluzione artistica e come ho sviluppato il mio metodo di lavoro.

Guido van der Werve, Nummer zestien, the present moment, Amsterdam, 2015. Courtesy Monitor, Roma-Lisbona

Guido van der Werve, Nummer zestien, the present moment, Amsterdam, 2015. Courtesy Monitor, Roma-Lisbona

In occasione del vernissage di Auto Sacramental a Milano hai fatto una performance utilizzando il tuo pianoforte-scacchiera. Da dove deriva la tua fascinazione per gli scacchi?
Mio padre mi ha insegnato a giocare a scacchi da bambino, io e mio fratello facevamo parte di un club scacchistico. Da piccolo suonavo parecchio e mi piacevano le somiglianze tra il pianoforte e gli scacchi. Circa dieci anni fa ho iniziato a comporre musica, acquisendo molta teoria musicale. In quel periodo vivevo a New York ed è lì che ho deciso di tornare agli scacchi. Il mio primo anno newyorkese ho per lo più giocato a scacchi e composto musica, e mi sono reso conto che la notazione degli scacchi è abbastanza simile alla notazione musicale.

Cioè?
Una scacchiera ha otto quadrati, cioè un’ottava. Sotto la tavola c’è scritto a, b, c, d, e, f, g, h. Ho pensato che se avessi trasformato l’ultima “h” in una “a” avrei ottenuto la scala di La minore. Ho iniziato a costruire un pianoforte-scacchiera, dove puoi pigiare i quadrati. All’interno ho costruito una meccanica di scacchi in La minore. Ho utilizzato il pianoforte-scacchiera come strumento solista per il mio film Number 12. A New York ho lavorato con un grandmaster di scacchi, chiedendogli di comporre una partita per il film, in tre movimenti di apertura, gioco intermedio e gioco finale. Ho usato le note emesse dal pianoforte-scacchiera per scrivere un brano di accompagnamento per archi.

Le tue opere e i tuoi libri sono intitolati numericamente, sulla base della convenzionale assegnazione delle opere musicali. La mostra a FuturDome include venti opere in venti stanze. Che ruolo ha il caso nel tuo lavoro, così ciclico, lineare e sequenziale?
Beh, sono sempre stato un po’ un nerd matematico. Penso il caso sia arbitrario, ma è bello essere parte di un evento magico.

Guido van der Werve, Nummer vier, I don't want to get involved in this. I don't want to be part of this. Talk me out of it. Zandvoort, Siitama & Enschede, NL, 2005. Courtesy Monitor, Roma-Lisbona

Guido van der Werve, Nummer vier, I don’t want to get involved in this. I don’t want to be part of this. Talk me out of it. Zandvoort, Siitama & Enschede, NL, 2005. Courtesy Monitor, Roma-Lisbona

Che nesso c’è tra i video e le musiche che componi?
Suono il pianoforte sin da bambino, da prima che iniziassi a fare arte. Mio padre e mio fratello sono entrambi pittori, ma io non ero molto interessato all’ambito visivo. Quando poi ho frequentato la scuola d’arte, ho avuto modo di conoscere la scena artistica contemporanea di Amsterdam. E sentivo la mancanza dell’immediatezza propria della musica. Mi chiedevo perché la musica fosse così diretta. Sono giunto alla conclusione che i compositori astraggono le loro emozioni in uno stato d’animo.
Ho quindi iniziato a usare il mio stato mentale come se fosse un faro, un riflettore. A cercare un’idea che astraesse visivamente questo stato mentale in un momento specifico. Ricerco le scene e scrivo la musica nello stesso tempo. Spesso compongo la musica prima di scrivere la sceneggiatura. Ascoltare la musica mi aiuta a trovare elementi visivi. Quando ricerco gli elementi visivi, uso la logica di un compositore e desidero la semplicità.

Molti tuoi video, anche in maniera paradossale, implicano ed esaltano una concezione eroica dell’uomo. Le performance sportive che documenti nei tuoi film richiedono una resistenza titanica alla fatica, alla lunga distanza e al freddo. Fare arte è un atto di eroismo?
Non ho mai voluto fare fiction, ho invece iniziato a filmare le mie performance. La mia vita e la mia arte sono intrecciate, quindi col tempo lo sport è entrato a far parte dei miei lavori. Considero lo sport una forma espressiva onesta. È nella mia natura ricercare le sfide, e il bello dello sport è che puoi migliorare continuamente. Ma non ho mai pensato all’eroismo…

La tua arte, come processo e come prodotto, ha più a che fare con la razionalità o con le emozioni?
Con le emozioni.

Guido van der Werve, Nummer twee. Just because I’m standing here doesn’t mean I want to, Papendrecht NL, 2003. Courtesy Monitor, Roma Lisbona

Guido van der Werve, Nummer twee. Just because I’m standing here doesn’t mean I want to, Papendrecht NL, 2003. Courtesy Monitor, Roma Lisbona

Il video è incline a confondere la linea tra il presente e il passato. Come artista, pensi di più al passato o al futuro?
Mi sono sempre preoccupato di più del futuro. Da quando ho compiuto quarant’anni, invecchiando, penso sia naturale iniziare a occuparmi del passato.

La musica è immateriale. L’immagine in movimento è immateriale. Qual è il tuo legame con gli oggetti materiali?
Dopo le superiori ho iniziato a studiare design industriale presso un’università tecnica, mi è sempre piaciuto costruire insegne e realizzare molti dei miei mobili. Ma per toccare le persone come fa la musica, è necessario qualcosa di immateriale.

E il linguaggio verbale, nel tuo lavoro che funzione ha?
Scrivo in forma testuale e, da buon olandese, adoro i giochi di parole. Immagino che molti artisti pensino nelle rispettive lingue, mentre io cerco di mantenere il mio flusso di pensieri totalmente astratto.

Il 9 aprile farai una performance inedita, a ridosso del finissage di Auto Sacramental. Ci anticipi cosa succederà?
Per il mio ultimo film Nummer zestien [Number 16], al momento ho scritto un pezzo per una pianola in 12 chiavi maggiori. Ho iniziato a orchestrare questa musica per il mio nuovo film Number 18. Per la performance milanese, l’Orchestra Filarmonica dei Navigli eseguirà la musica dal vivo.

Cosa ti è più congeniale e cosa più faticoso dell’atto performativo dal vivo?
La performance si basa su una temporalità, e l’artista risulta bravo o meno bravo a seconda di com’è andata la sua ultima performance. La cosa bella dei film è che devi interpretare la parte una volta sola, e sarà lì per sempre.

Secondo un famoso aforisma attribuito a Chopin, chi non sa ridere non è una persona seria. Cos’è per te l’umorismo?
L’umorismo rende tangibile le cose pesanti. Il mio Personaggio ha un lato drammatico, per cui ho bisogno dell’umorismo per poter usare la pesantezza…

Margherita Zanoletti

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Margherita Zanoletti

Margherita Zanoletti

Con Francesca di Blasio ha pubblicato la prima traduzione italiana di “We are Going” dell’autrice e artista aborigena australiana Oodgeroo Noonuccal; con Pierpaolo Antonello e Matilde Nardelli ha co-curato “Bruno Munari: the Lightness of Art”. Dal 2004 idea e collabora…

Scopri di più