Pittura in divenire. Intervista a Nebojša Despotović
L’artista serbo parla della sua personale in corso alla Boccanera Gallery di Trento. Accompagnando il pubblico alla scoperta del proprio studio.
Between the Devil and the Deep Blue Sea ovvero Freie Kartoffeln è il titolo della personale di Nebojša Despotović (Belgrado, 1982) presso la Boccanera Gallery di Trento. L’artista serbo presenta dipinti su tela e su PVC animati da figure misteriose o da superfici tattili e materiche, che dialogano con gli spazi della galleria, invadendo talvolta la parete e il pavimento.
Il percorso si conclude con una vera e propria quinta teatrale in PVC (Time to come) che introduce all’ultima area, dove per la prima volta Despotović espone degli oggetti prelevati dal suo studio.
In vista della presentazione del catalogo della mostra a Milano l’11 aprile, alle 18, presso lo spazio Boccanera Box in via Ventura 6, abbiamo chiesto all’artista di parlarci di questa mostra e delle evoluzioni della sua pittura.
Cosa puoi dirci di Between the Devil and the Deep Blue Sea ovvero Freie Kartoffeln?
In questa mostra, per la prima volta, dò forma a tutta una parte della mia ricerca che non aveva ancora fisicità, che apparteneva solo al mio processo creativo, che non era ancora stata decifrata come qualcosa che potesse avere un corpo a sé stante. Ho lavorato con grande libertà, realizzando nuovi dipinti e opere fatte di elementi pre-esistenti, cucendo e assemblando residui e materiali che avevo archiviato nel passato in attesa di un progetto di questo tipo. In queste opere, ovvero i dipinti più piccoli e gli oggetti, sono andato a strati, seguendo un processo creativo non intenzionale, senza preoccuparmi se sarebbero diventate o no opere d’arte. Nei dipinti di grande formato, invece, ho creato quella parte narrativa che secondo me è necessaria per completare il percorso espositivo. In questa mostra c’è un’unione di elementi di presentazione dell’artista e di elementi di ricerca che fanno luce sull’importanza del processo creativo accanto a quella dell’opera d’arte in sé.
Quindi è per questo che hai scelto di rappresentare il tuo studio, perché si trattava dell’immagine di un processo in divenire?
Diciamo che non si tratta esattamente del mio studio: gli oggetti presentati sono elementi espressivi che fanno parte del processo creativo, e visto che dipingo nel mio atelier sono pezzi del mio atelier. La cosa fondamentale è che si tratta di elementi grezzi, cui non è stato conferito il ruolo di opera d’arte, ma che sono semplicemente stati adoperati nella creazione e perciò hanno una carica molto diversa rispetto alla pittura, che è sempre definita dalle regole della rappresentazione figurativa ‒ perché, fondamentalmente, io rientro nella categoria di pittore figurativo, sebbene le fonti delle immagini siano talvolta volutamente non riconoscibili. In questo caso si tratta invece di materiali che hanno trattenuto l’energia della mano e del gesto, senza prendere una forma riconoscibile.
Spiegaci meglio.
Davanti alla tela bianca sei spinto, a livello inconscio, a creare un’opera d’arte, a dimostrare che sei bravo, mentre davanti a un oggetto di scarto, come uno straccio che hai usato per dipingere, hai solo l’esigenza di comunicare con esso, senza imprimergli più di quello che è già. Lo abbini magari a un altro elemento espressivo, che può essere un sasso, un pezzo di carta, un PVC, ma senza alterarlo, senza cercare di farlo diventare artificiosamente importante, senza l’artificio, che è, già nella parola, parte dell’arte.
Nel percorso espositivo, infatti, ad alcuni dei dipinti è stato dato un muro bianco per enfatizzare che questa è pittura e contiene in sé tutti gli elementi necessari per la sua lettura; dall’altra parte, invece, in opere astratte, ho avuto bisogno di creare un wall painting per accompagnare l’osservatore alla fruizione, per fargli apprezzare alcuni elementi tattili e materici.
Questo è quello che succede, secondo me, con I give my ear e Silky solitude ai lati dell’ingresso al terzo ambiente, dove le opere sono collocate su uno “sfondo”: grazie a questo orienti lo sguardo sulla piccola opera in modo molto scenografico, molto barocco se mi passi il termine, nel senso di creazione di artificio e meraviglia.
Sì, e ti dico di più, c’è un altro aspetto in questa mostra che costituisce un mio feticcio: l’essere in grado di creare delle “meraviglie” con materiali poveri, cui do un significato e imprimo energia. Queste opere, questi oggetti, non parlano solo di me, parlano di tutto, parlano della società, parlano del mondo economico nel quale noi ci troviamo, sono una specie di catalizzatore nel quale trasferisco gli elementi che assorbo. Quando ho detto all’architetto della mostra “questo tavolo è Ikea e a me piace proprio per la sua povertà”, lui mi ha risposto “è naturale, è quello che la società ti offre”. Il fatto che io adoperi questi materiali è una critica diretta a molte altre tipologie di materiale che vengono adoperate oggi nell’arte; quando agisci, del resto, è sempre un intreccio di conscio e inconscio, e questi oggetti sono più legati alle cose che fai senza rendertene conto.
Vivo così anche la storia della pittura, cui faccio riferimento in alcuni dipinti come Lissitzky and Malevich, o come Pirosmani, riferito a Nico Pirosmani, un artista borderline georgiano del XIX secolo o in Cup of tea with blind princess che è un omaggio alla mia ossessione per il quadro di Manet Colazione sull’erba; in un qualche modo vivo la tradizione pittorica come se fosse una cosa viva e attuale. Del resto non utilizzo macchinari tecnologici, vernici di ultima generazione, non ho assistenti che dipingono per me, io lavoro ancora come un pittore bohèmien.
Questo modo di lavorare spiega anche il titolo della mostra, che contiene una contraddizione fra una prima parte molto poetica, Between the Devil and the Deep Blue Sea, e una seconda più ironica, Freie Kartoffeln, letteralmente “patate a gratis”.
Per me l’arte è, nello stesso tempo, la cosa più seria del mondo e il gioco più importante che esista. La prima parte Between the Devil and the Deep Blue Sea è il titolo di una canzone popolare americana, ripresa anche da Paolo Conte in Italia e cantata da George Harrison dei Beatles e che proviene da un proverbio che fondamentalmente vuol dire che: c’è un male e c’è anche un altro male e tu devi stare nel mezzo, l’arte è così, il bene lo devi trovare tu al bivio. E dopo questa nota di serietà c’è lo scherzo: qui ci sono patate che si legano immediatamente a una vita povera, pensiamo a I mangiatori di patate di van Gogh. E io, dicendo Freie Kartoffeln, ossia “patate a gratis”, mi riferisco a questi elementi che mi accompagnavano nella mia evoluzione pittorica e che sono come le patate, ma non potevano essere considerati espressivi prima di questa mostra.
Perché il pubblico, secondo te, è così affascinato dall’idea di entrare nello studio di un artista, in questa dimensione creativa e privata?
Giorni fa è venuto un artista di Berlino a trovarmi e mi ha chiesto consigli su cosa andare a vedere a Venezia. Io gli ho suggerito il Palazzo Fortuny perché già in sé contiene tutta la sedimentazione di una Wunderkammer, della vita magica di un artista. Quando qualcuno vive un luogo lo cambia, gli imprime un’energia, un’aura. Penso che finché saremo “umani” saremo legati alla capacità di farci meravigliare dagli ambienti, dagli oggetti e dalle situazioni che hanno su di noi un potere ancestrale, magico. Lo studio di Francis Bacon è mantenuto nel suo stato perché modificandolo verrebbe a perdersi qualcosa nella sacralità del luogo. A livello intellettuale, sociale e culturale l’aura esiste, ce l’abbiamo noi in testa, noi ci siamo creati l’immagine dello studio di Francis Bacon come teatro di battaglie psicologiche importantissime nella sfera della creazione dell’immagine del ventesimo secolo.
E quindi risponde alla nostra idea, a quello che vogliamo vedere.
Sì. Un uomo, in qualsiasi epoca e in qualsiasi continente, è e sarà sempre legato alla necessità di avere davanti a sé delle prove che qualcosa di eccezionale e meraviglioso possa succedere, esista. Lo studio di un artista è il posto fisico che racconta fisicamente questa possibilità.
Progetti futuri di cui ci vuoi parlare?
Ho tante idee che si svilupperanno a partire dalla mostra personale da Boccanera Gallery a Trento e a Milano, legate all’evoluzione di questo importante progetto espositivo che mi ha impegnato due anni: prospettiamo un 2018 intenso.
‒ Sara d’Alessandro Manozzo
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