Triennale Design Museum. Intervista allo studio Calvi Brambilla
In occasione della nuova produzione del Triennale Design Museum ‒ la rassegna “Storie. Design Italiano” – abbiamo incontrato per una ricognizione lo studio milanese Calvi Brambilla, artefice dell’allestimento che mostriamo in anteprima.
L’undicesima edizione del Triennale Design Museum, il progetto curatoriale e di allestimento che ogni anno fa “cambiare pelle” al museo milanese, si interroga, ancora una volta, su che cos’è il design italiano. Cinque sono i curatori chiamati a proporre una riflessione su quali siano gli oggetti-icona che hanno fatto la storia del design italiano, oltre a una loro reinterpretazione attraverso lo sguardo di altre discipline. Chiara Alessi, Manolo De Giorgi, Maddalena Della Mura, Vanni Pasca e Raimonda Riccini hanno sviluppato ciascuno un tema ben preciso, attraverso la selezione di 180 oggetti – parte della collezione del museo, tutti prodotti tra il 1902 e il 1998. Il risultato è un articolato percorso espositivo composto di paesaggi tra loro diversi, disegnato dalla mano attenta dello studio Calvi Brambilla, già vincitore di diversi premi e riconoscimenti, che ha curato il progetto dell’allestimento.
L’INTERVISTA
Come si è evoluto il progetto della mostra nel dialogo aperto con i cinque curatori?
Quando a metà dicembre 2017 siamo stati invitati a disegnare l’allestimento per l’undicesima edizione del TDM, il gruppo di curatori ci ha dato un brief molto preciso: da una parte una selezione di pezzi iconici esposti in ordine cronologico, quindi una lettura orizzontale della storia, e dall’altra cinque approfondimenti tematici, uno per ciascun curatore. Bisogna sottolineare che i cinque sono stati scelti da Silvana Annicchiarico proprio perché ognuno di loro offre un modo di leggere il design completamente diverso; pertanto con ciascuno abbiamo dovuto identificare una specifica strategia progettuale.
Per poter gestire una mostra così complessa, e in così poco tempo, abbiamo pensato di affidarci a una metafora, la città, che con le sue stratificazioni e contraddizioni permettesse di racchiudere in un’immagine coerente contenuti molto diversi. Il visitatore si aggirerà tra astrazioni di strade e palazzi, e sarà invitato a entrare nei diversi ambienti come un turista che visita negozi e gallerie.
Nei vostri lavori il limite disciplinare tra architettura e design è spesso difficile da distinguere. C’è una forte commistione di riferimenti culturali e di scale di progetto che si intrecciano e danno vita a spazi che diventano percorsi esplorativi e narrativi. Come viene interpretato questo dialogo nella mostra del nuovo Design Museum?
Nei nostri lavori favoriamo al massimo le contaminazioni disciplinari perché crediamo che accrescano il progetto. Spesso il design è stato definito per contrapposizione all’architettura, secondo l’idea che, mentre nell’architettura è sempre presente un desiderio di permanenza, il design lavora sui concetti di leggerezza, flessibilità, temporalità. Si sono fatte anche molte distinzioni tra design e arte ed effettivamente, se l’arte ha da sempre un rapporto conflittuale con il commercio, il design al contrario non ha complessi di colpa nei confronti del mercato, anzi, ha la pretesa di guidarlo, perfino di educarlo. Il design, al contrario, non ha complessi di colpa nei confronti del mercato, anzi, ha la pretesa di guidarlo, perfino di educarlo. Tuttavia, oggi si moltiplicano gli esempi in cui questi schemi vengono contraddetti: le architetture diventano effimere, le installazioni diventano abitabili, i pezzi di design diventano opere uniche vendute alle aste a cifre favolose. In questo senso la commistione di riferimenti è un atteggiamento di matrice umanistica che viene da lontano ma che si rivela molto contemporaneo.
L’ingresso alla mostra è diventato una sorta di percorso viatico nel vostro allestimento, con lo scalone d’onore adornato di due grandi superfici specchianti in cui le persone potranno ammirare la loro immagine, per poi arrivare al ponte che diventa spazio architettonico chiuso. Come mai questa scelta?
L’esposizione s’intitola “Storie” perché vengono raccontate le vicende che stanno dietro ai pezzi di design che hanno costruito l’identità visiva e materiale del nostro Paese. Queste “Storie” hanno trovato un palcoscenico privilegiato nella Triennale come luogo dove sono state messe in scena con allestimenti memorabili, molti dei quali gravitavano attorno allo scalone d’onore: il celebre neon di Lucio Fontana, la casa sezionata di Aldo Rossi e le ali d’angelo di Margherita Palli.
È così che abbiamo pensato a un grande specchio che duplica questa scala in modo che il visitatore e la Triennale si riflettano nel museo e negli oggetti che contiene.
Il tunnel d’ingresso, con un certo spirito ludico, vuole creare il giusto distacco tra lo spazio dell’edificio e quello della mostra, fino all’esplosione di neon del primo ambiente dedicato alle forme della distribuzione.
Quali sono i progetti su cui state lavorando in questo momento? Che cosa vedremo prossimamente?
Stiamo lavorando alla trasformazione di un palazzo di Murano nello spazio espositivo di Barovier & Toso, una delle aziende più antiche al mondo, fondata nel XIII secolo. Si tratta di esporre dei prodotti che portano con sé una storia densissima, fatta di continue innovazioni tecniche, oltre che estetiche. Una componente importante sarà il confronto tra questi pezzi con le opere d’arte contemporanea alle pareti.
Il vostro potrebbe essere definito un lavoro sartoriale, in cui il più delle volte costruite uno spazio che rappresenta, racconta e sovente rafforza l’identità di un marchio o di un prodotto. Qual è l’iter che di solito usate per la costruzione di questi progetti?
Interpretando le aziende come organismi vivi, non come semplici attività economiche. Quando il committente è un marchio con una storia, cerchiamo di leggerlo come un racconto a cui contribuire aggiungendo una pagina. Se si tratta di un’azienda giovane, proviamo a costruirne una parte dell’identità. Non ci interessa anteporre il nostro segno o la nostra firma, non ci piacciono i progettisti autoreferenziali.
Chi o che cosa ha influenzato, o influenza, di più il vostro lavoro?
Tutte le forme di progetto dove c’è un pensiero, e non semplicemente stile.
‒ Simona Galateo
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