Limiti senza confine. Intervista a Gianni Asdrubali

Secondo Gianni Asdrubali, tutto accade in superficie manifestandosi come l'immagine di un “fatto pittorico” senza ipotesi o progetti. Lo abbiamo intervistato in occasione della sua mostra al Museo Carlo Bilotti di Roma.

Legata com’è all’attimo presente l’opera di Gianni Asdrubali (Tuscania, 1955), in mostra al Museo Carlo Bilotti di Roma, sconfina senza mostrarsi fuori dallo spazio che gli è stato concesso: un limite illusorio che concepisce il fuori come dentro l’opera.
La pittura si fa spazio e tempo creando un’unica dimensione che dal pensiero al gesto pittorico genera tensioni strutturali che agiscono nel “vuoto previsionale”, definito dal testo in catalogo di Marco Tonelli come un salto temporale che non è possibile direzionare.
La gestualità ormai riconoscibile dell’artista connette le prime opere degli Anni Settanta con le ultime, più materiche e istintive, in un’unica sferica spazialità che rinuncia a restituire immagini e metafore della realtà per praticare una filosofia pittorica che l’artista definisce “spazio frontale” o “muro magico” postinformale.

L’INTERVISTA

Con le tue dichiarazioni metti in discussione buona parte della teoria che caratterizza l’arte dagli anni Settanta in poi, lo spazialismo di Fontana ad esempio.
Negli Anni Settanta abbiamo assistito a diversi tentativi per uscire fuori dal quadro. Io con i miei Tromboloidi a parete, realizzati nel ‘92 e in mostra al Museo Bilotti, si potrebbe dire che sono uscito dal quadro. Ma non sono uscito dal quadro, perché la parete diventa il quadro. È già il pensiero il quadro, invece, ma qualcuno pensa ancora che il quadro è quadro. Non si esce dal limite, il problema è un altro, trovare nel limite l’infinito.

Gianni Asdrubali. Photo Lucrezia Testa Iannilli

Gianni Asdrubali. Photo Lucrezia Testa Iannilli

Il tuo lavoro indaga lo spazio rendendolo attivo, il risultato è un’esperienza immersiva senza mai ricorrere alla metafora o alla rappresentazione.
Un conto è stare sopra un ponte e guardare da sopra l’acqua che scorre immaginando di essere lì dentro, un conto è stare sott’acqua. Se stai sott’acqua non puoi fare il romanticone perché altrimenti affoghi, lì non devi rappresentare nulla, devi fare un’azione, la tua, ti devi salvare, altrimenti sei morto.

Quindi stai cercando di salvarti?
Certo, se ti trovi nel vuoto assoluto, che fai? Dove ti aggrappi? Non hai tempo. Devi creare il pieno, cioè devi trasformare questa assenza in positivo, devi attivare il vuoto, renderlo positivo, non riempirlo.

In mostra possiamo osservare installazioni pittoriche su tela, legno, forex e plexiglass. Quali sono i materiali che preferisci usare nel tuo lavoro?
Non è importante il materiale, può essere qualsiasi, è solo un fatto strumentale. Se io lavoro sul plexiglass o sulla tela per me non c’è differenza, quello che mi interessa è il risultato.

Non hai mai pensato di rapportarti con la tecnologia per tradurre verosimilmente il tuo pensiero in un ambiente virtuale e reattivo?
La contemporaneità bleffa. Dalla tecnologia bisognerebbe prendere solo quello che serve, perché la tecnologia serve a qualcosa, se è fine a se stessa è deleteria, ti distrugge. Si va nell’estetismo degradante, nella stupidità, nel banale, nel ridicolo perché è fine a se stessa. Il fine diventa farlo bello, invece il bello deve essere casualmente bello. Questo lavoro è complesso perché è semplice, non c’è niente qua. C’è una radicalità estrema. Il meno, la riflessione in qualche modo diventa ricca, piena di energia. La riduzione è necessaria per qualsiasi costruzione. Se invece si parla di rappresentazione, allora aggiungi materiali ed effetti speciali ma non bisogna farsi fregare dalla tecnologia e rincorrere il progresso dove il nuovo brucia se stesso. Si deve pensare a livello originario, si deve ritornare all’origine per ricostruire qualcosa.

Gianni Asdrubali. Lo spazio impossibile. Museo Carlo Bilotti, Roma 2018. Photo Antonio Idini

Gianni Asdrubali. Lo spazio impossibile. Museo Carlo Bilotti, Roma 2018. Photo Antonio Idini

Le tue opere si caratterizzano sempre per una fitta rete di linee che nel tempo hanno subito piccole variazioni di forma, anzi, di antiforma.
L’artista ha un’idea, non è che ne ha cinquecento. Michelangelo pure ce ne aveva una, Fontana ne aveva una, quella dello spazialismo, ma pure Duchamp aveva un’idea. Non c’è nessuno che ha tante idee qua, se ne hai una è tanto. Sembra che sia poco ma non finisce mai quella, non c’è mai una chiusura. È come una porta che poi si apre e ce n’è un’altra, e un’altra, all’infinito. Paolini, Kounellis, Burri, Pollock hanno una sola idea, perché quell’idea è infinita, se è vera. Se è falsa dopo cinque minuti cambi lavoro.

Come agisce l’informazione nella creazione dell’immagine?
Tutto influisce: religione, scienza, filosofia. Dentro l’opera c’è tutto. Ma tutto questo deve servire come informazione, non è il fine. Questo lo filtri nel reale, lo allinei. Si ha un’intuizione perché si hanno delle informazioni dal reale.

La cosa più importante per un artista nel suo percorso di ricerca e di sperimentazione?
In un artista la cosa più importante è la partenza. Se sbagli in partenza è meglio smettere subito.

‒ Donatella Giordano

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Donatella Giordano

Donatella Giordano

Nata in Sicilia, vive a Roma dal 2001. Ha studiato presso l’Accademia di Belle Arti di Roma, dove nel 2006 ha conseguito il diploma di laurea con una tesi che approfondiva la nascita dei primi happening e delle azioni performative…

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