Versus. Il dibattito tra etica ed estetica
Viene prima l’uomo o l’artista? L’opera o il suo significato? In questo appuntamento con la rubrica “Versus” incontriamo Giuseppe Stampone e Nicola Samorì, che duellano a colpi di argomentazioni, ragionando sulle implicazioni morali del lavoro creativo.
Dall’ideale greco della kalokagathìa ai relativismi postmoderni, i concetti del bello e del buono sono sempre stati al centro della riflessione filosofica. L’ago della bilancia pende ora da una parte ora dall’altra e sempre resta l’interrogativo sull’opportunità di un’armoniosa coincidenza tra la sfera dell’etica e quella dell’estetica. Inutile tentare di risolvere l’annosa questione avventurandosi in tortuose dispute specialistiche: meglio chiacchierarne in maniera distesa insieme a Giuseppe Stampone e Nicola Samorì. I due artisti, con arguzia, hanno colto il senso del gioco di Versus, che sfiora i grandi temi divisivi senza mai esasperare le divergenze.
È giusto parlare di bellezza? È aggraziato parlare di virtù? Il problema del giudizio morale o di gusto deve essere una preoccupazione dell’artista, o andrebbe spostato completamente sul versante della ricezione?
Nicola Samorì: La bellezza è l’allenamento viziato dell’occhio. Allenamento perché si deve maturare, a volte marcire, per credere di conoscerla; viziato perché è la summa di abitudini che diventano memoria e, al contempo, qualcosa che confondiamo con l’istinto. Non credo sia “giusto” parlare di bellezza: è inevitabile. Lo facciamo ogni giorno rispetto a migliaia di cose; siamo mossi dal demone della bellezza ogni volta che scegliamo qualcosa. La morale o il gusto e l’opera di un artista, poi, non coincidono, perché l’opera va più a fondo e all’origine delle cose, dove il giudizio non si è ancora formato. La paura e l’attrazione erotica, la fede e la morte sono prima del bene e del male, del bello e del brutto; ecco perché non è difficile incontrare artisti con una condotta di vita che reputiamo deprecabile. Fra questa energia originaria e la manifestazione della stessa s’insinua, ancora una volta, il vizio, che diventa gusto o, peggio ancora, “buon gusto”. Personalmente per approdare a un gesto che ritengo autentico ho bisogno di asservirmi al buon gusto e alla tradizione per giorni.
Giuseppe Stampone: Per me il concetto di bellezza non esiste: è solo una giustificazione politica per creare un’ennesima categoria, un ordine gerarchico fatto di apparenze. Per me l’arte è una necessità ed è l’unica strada percorribile. Prima dell’estetica viene l’etica, anche se a volte l’etica diventa moralismo; ma questo non è un problema dell’artista: riguarda il suo lavoro, che decide da solo se vivere, morire per sempre o risuscitare. Ogni opera è la formalizzazione di un pensiero attraverso un linguaggio, che ha una sua grammatica, ma non è detto che per dialogare si debba conoscere la grammatica. Al concetto di bellezza preferisco quello di armonia o di equilibrio totale. Il mio è un approccio concettuale: nell’era della globalizzazione mi interessa il “fare”, non come scelta manieristica, ma come processo che implica il recupero del tempo intimo e la sua dilatazione, in antitesi alla velocità imposta dal mercato, da Internet e dal nuovo villaggio globale. Warhol si definiva una macchina, io una fotocopiatrice intelligente, che, però, fa una sola copia. La dilatazione del tempo è un’alternativa anarchica alla dittatura di un presente frenetico, veloce e ossessivo: è una forma di disubbidienza.
A proposito di artisti geniali, ma deplorevoli dal punto di vista umano: cosa pensate delle opere d’arte formalmente perfette, che però veicolano messaggi inconciliabili con i vostri principi e ideali?
Nicola Samorì: Di fronte a un’opera forte dimentico l’uomo che l’ha concepita; l’unica cosa che resta, semmai, è una punta di morbosità per il suo vissuto. Che l’autore fosse fascista o assassino, crudele o pederasta, per me ha ben poca importanza dal momento che l’opera è un atto di civiltà enorme, e quando guardo il Perseo nella Loggia dei Lanzi non penso certo alle miserie di chi lo ha modellato. Così la sola differenza che corre ai miei occhi fra una pittura murale di Sironi e una di Rivera è di carattere formale e, man mano che i decenni passano, questo valore si irrobustisce. Cerco di vedere come se fossi morto da cent’anni perché le immagini devono essere frollate e, prima o poi, una forma resta una battaglia di segni e non il ritratto di una battaglia.
Giuseppe Stampone: L’arte è oggettiva, non è soggettiva: con questa affermazione potrei chiudere la mia risposta! Ogni visione soggettiva, nel caso di grandi opere, con il tempo diventa oggettiva. L’arte non è una copia del mondo reale, altrimenti diventerebbe un documentario. Per me è molto importante il concetto di esperienza: un artista non può parlare di emigrazione se lui stesso non è stato emigrante. Un “compitino” ben eseguito, che “funziona”, non mi basta se poi i contenuti e l’approccio dell’artista non sono coerenti con il suo vissuto e con le sue esperienze personali. Quando vedo un’opera, la prima cosa che mi chiedo è se il mondo ne ha davvero bisogno. Tengo a precisare che ritengo molto più utile per la società un taglio di Fontana o l’orinatoio di Duchamp rispetto a qualsiasi rappresentazione didascalica e sequenziale di temi di attualità.
Valutando nel complesso il vostro percorso artistico, c’è un lavoro (o un ciclo di opere) che rappresenta per voi un traguardo particolarmente significativo sul piano estetico e formale? Quale esperienza considerate invece la più edificante dal punto di vista umano?
Giuseppe Stampone: Sul piano formale citerei le mappe georeferenziate e la serie Past to the Future. In quest’ultima reinterpreto quadri storici riattualizzandoli con iconografie di episodi contemporanei; ad esempio per la Triennale di Ostende, curata da Jan Fabre sul tema dell’emigrazione, ho ripreso La zattera della Medusa inserendo immagini di immigrati sbarcati a Lampedusa e fotografati da me. In queste tavole la prospettiva amalgama due spazi-tempi diversi in un’unica visione. Umanamente la mia più grande soddisfazione è stata quella di aver creato il network Solstizio Project (insieme a Maria Crispal, Davide Sottanelli e Emidio Sciannella) e la mia scuola Global Education.
Nicola Samorì: Qualcosa è successo fra il 2009 e il 2010. Cerco ancora di capirne le ragioni e l’unica cosa che mi viene in mente è il terremoto dell’Aquila e le sue conseguenze, che hanno assunto un rilievo inaspettato nella mia vita privata. È allora che ho iniziato a portare la tempesta nel museo con una cura e una collera che hanno messo radici profonde, come un’erba infestante; ma il raccolto è stato rigoglioso e il mio metodo è diventato sicuro e sistematico. Umanamente sono fiero di non aver mai sprecato un minuto della mia vita contro un altro, se non per difendermi; almeno fino a quest’anno.
Per finire, pensando all’impatto che il vostro lavoro ha sulle persone, credete prevalga la gratificazione per gli occhi o mirate al cuore?
Giuseppe Stampone: Ti rispondo attraverso il concetto di “spettatore-contenuto”: c’è uno spazio che divide il lavoro e lo spettatore nell’attimo della fruizione. Chiamerei questa distanza “spazio della trasfigurazione”: in questo spazio l’opera modifica lo spettatore e lo spettatore modifica l’opera. Dopo l’esperienza entrambi non sono più gli stessi, ma assimilano e acquistano contenuti nuovi. Quindi, a seconda della forma mentis e della percezione di ogni singolo “spettatore-contenuto”, può prevalere la mente, l’occhio, l’emotività o quant’altro.
Nicola Samorì: Ho una pessima mira – anche nei sogni – e qualche volta colpisco gli occhi o la testa, altre volte la spina dorsale oppure le mani e, più spesso, lo stomaco. Non credo di aver mai colpito al cuore nessuno, anche perché la pittura e la scultura non mi sembrano le armi giuste per puntare al petto.
‒ Vincenzo Merola
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