Franco Farina, “il maestro”. L’omaggio di Renato Barilli
Il critico bolognese ricorda con affetto il collega scomparso pochi giorni fa. Evocandone le gesta sullo sfondo del Palazzo dei Diamanti.
Continua implacabile lo stillicidio di morti illustri nel settore dell’arte che sembra caratterizzare negativamente questo triste 2018. Se n’è andato anche Franco Farina, anche se i novant’anni d’età da lui raggiunti possono sembrare abbastanza normali, benché lontani dal massimo traguardo segnato da Dorfles. Egli è stata una figura dominatrice dei nostri ormai lontani Anni Settanta in cui ha conseguito tanti meriti, nel settore curatoriale, nonostante una sua modesta provenienza da maestro di scuola. In proposito comincio subito col ricordare un divertente aneddoto. Quando, proprio in quegli anni del suo splendore, lo chiamai per la prima volta al telefono, da critico militante che come tanti altri bussavo alla sua porta, chiesi di lui qualificandolo col titolo, a dire il vero frusto e banale, di “dottore”, al che un inserviente mi rispose con tono solenne che il “maestro” era in altra stanza. Imparai l’antifona, e da quel momento, quando mi accadeva di chiedere di lui, lo qualificavo proprio con quel titolo che sapeva portare con estrema dignità. Poi ho preso a qualificare in ugual modo anche Luigi Ontani, a cui mi lega un lungo sodalizio, ma per le vie di Roma, inseguendo le sue orme, bisogna chiedere appunto del “maestro”. Qualcuno ha tentato di applicare anche a me lo stesso appellativo, ma io rispondo con un “non sum dignus”, sono stato solo un professore, un po’ di più del maestro elementare ma molto meno della qualifica che si addice a chi ha ormai un piede nella storia. Come è nel caso di Farina, che partendo quasi da zero aveva impiantato una enorme flotta, cominciando col rilanciare il Palazzo dei Diamanti, la nave ammiraglia, ma straripando in tanti altri luoghi attigui, e con una puntata nel vicino Parco Massari a impadronirsi di una magnifica Palazzina, ora designata con un anonimo PAC.
“Nel complesso si può dire che Farina avesse issato una bandiera di libera filibusta, di un programma di lavori esuberanti, espansi in mille direzioni”.
Per tutti gli Anni Settanta era solo lui a organizzare mostre, di tutti i livelli e portate, con l’unico partner che proprio nel sistema universitario riusciva a fargli da sponda, Carlo Arturo Quintavalle, ma perché, figlio di genitori che erano stati entrambi soprintendenti, nelle cupe sale della Pilotta ci era nato e cresciuto, e dunque era legittimo che ora ne ospitasse alcune tra le poche mostre che si facevano in Italia, in un momento in cui quasi tutte le altre istituzioni pubbliche tacevano. Quante volte ho trovato udienza dal “maestro” Farina, sia che fosse per presentare giovani promesse, tra cui lo stesso Ontani e Ketty La Rocca, ora solennemente esposta al PAC, sia qualche prima uscita dei miei Nuovi-nuovi, e allora potei disporre dell’intera Palazzina del Parco Massari coi suoi due piani. Si aggiunga che in uno spazio contiguo la lungimiranza di Farina aveva saputo mettere in corsa anche la moglie Lola Bonora, consentendole di aprire un primo centro pubblico di videoarte. Certo, per riuscire a tenere ai Diamanti mostre di artisti di grande nome, potendo contare su un modesto budget, Farina era costretto ad appoggiarsi a galleristi e collezionisti privati, con qualche compromesso a loro favore. Ma i risultati erano superbi, unici, isolati nel generale deserto espositivo, e per giunta egli provvedeva anche a chiamarmi dalla vicina cattedra bolognese di storia dell’arte contemporanea a commentare per il pubblico i capolavori affissi alle pareti, come fu per esempio nel caso di Warhol, in una delle sue prime apparizioni in Italia, e lui assisteva, porgeva la battuta, da confortante padrone di casa, che sapeva anche fare un passo indietro, non presumendo troppo della sua stessa preparazione, ma sornione, affettuoso, vivacemente partecipe.
UNA GENEROSA IMPROVVISAZIONE
Sempre sulla scia dei ricordi, posso dire che in quegli affascinanti duetti tra me e lui si era infilato anche il giovane Sgarbi, allora appena studente a Bologna, ma che già aveva preso in “gran dispitto” i nostri docenti, e che intervenne a criticarmi, a strapparmi la battuta. Nel complesso si può dire che Farina avesse issato una bandiera di libera filibusta, di un programma di lavori esuberanti, espansi in mille direzioni, fin troppo, ma sempre nel segno di una generosità di cui l’intera arte italiana e internazionale di quegli anni gli deve essere grata. Poi venne il pensionamento, e Ferrara, che ora a quanto pare ha pianto sulla sua bara, non si comportò molto bene, non seppe assicurargli un qualche impiego, cambiò stile, chiamò un super-raccomandato Andrea Buzzoni che mise il doppio petto, passando a mostre titolate, amministrate con un corretto budget, ponendo fine agli anni di generosa improvvisazione. A definire la quale può valere un ossimoro concentrato in una sola parola, si può parlare di un effetto “caosmico”.
‒ Renato Barilli
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