Oceani in prospettiva. Intervista ad Armin Linke

In mostra a Venezia con il progetto “Prospecting Ocean”, Armin Linke ha chiarito i temi cardine del suo lavoro. Spaziando dalla fotografia alla scienza.

Tutto è cominciato a Berlino quando il fotografo e filmmaker Armin Linke (1966) ha intrapreso il progetto Anthropocene Observatory allʼHaus der Kulturen der Welt col curatore Anselm Franke e la Territorial Agency, fondata dagli architetti John Palmesino e Ann-Sofi Rönnskog. Per due anni ha avuto la possibilità di sviluppare un’installazione che presentava osservazioni legate al tema dellʼAntropocene e, in particolare, attorno ai temi del cambiamento climatico, della geologia e dellʼatmosfera. Da qui è nata l’idea del progetto Prospecting Ocean che l’ha coinvolto in tre anni di spedizioni nell’Oceano Pacifico col programma The Current, curato dalla TBA21–Academy ‒ istituzione con base a Londra, diretta da Markus Reymann e fondata da Francesca von Habsburg ‒ a bordo dell’imbarcazione Dardanella.
Il materiale ora in mostra a Venezia non è però stato ripreso durante i viaggi sulla nave e il risultato finale è molto affascinante e coinvolgente da un punto di vista scientifico e di ricerca, meno attraente da quello formale ed estetico. Non è un compito semplice formalizzare ricerche scientifiche e in questo caso, più che di fronte a opere d’arte, siamo in presenza di “dispositivi” documentaristici, educativi e narrativi.
L’intento dell’artista non era tanto parlare dell’oceano da un punto di vista estetico o “romantico” ma di come è rappresentato in ambito legale, nel mondo scientifico e da chi lo usa quotidianamente. Gli spazi dell’ex sede centrale dei vecchi laboratori dell’Istituto di Scienze Marine del Consiglio Nazionale delle Ricerche CNR-ISMAR di Venezia, a due passi dall’Arsenale sulla Riva dei Sette Martiri, gli hanno facilitato il compito perché, per la loro conformazione, si prestano perfettamente a questo tipo di display.
La mostra riunisce fotografie, video, materiali d’archivio, riprese di assemblee a porte chiuse delle Nazioni Unite e tante interviste che presuppongono una fruizione lenta e meditata. Abbiamo incontrato l’artista durante i giorni della preview della Biennale di Architettura per farci raccontare la genesi e gli ambiziosi obiettivi del progetto.

Armin Linke © Armin Linke

Armin Linke © Armin Linke

L’INTERVISTA

L’oceano è un’entità complessa che ricopre più del 70% della crosta terrestre. Molto spesso lo percepiamo e lo visualizziamo come superficie più che habitat. È un mondo articolato, con una ricchezza straordinaria nelle sue profondità, con le sue regole e la sua organizzazione. Come ti sei rapportato con la sua complessità e magnificenza?
M’interessava parlare di questo tema non tanto da un punto di vista estetico o romantico, come spesso viene rappresentato il mare, cioè come un infinito o un qualcosa di sconosciuto, di drammatico, ma volevo cercare di capire come esso viene rappresentato nel mondo legale, nel mondo scientifico e da chi lo vive quotidianamente. Per questo, lʼapproccio è stato quello di identificare quali sono le situazioni politiche che lo regolano, farmi spiegare qual è stata lʼevoluzione legale e quali sono gli interessi economici che stanno proprio in questo momento trasformando la distribuzione dei territori dei fondali marini e delle colonne dʼacqua degli oceani. E da un punto di vista scientifico, invece, ho cercato di evidenziare come gli scienziati si concentrino particolarmente sulle esplorazioni e sulle indagini piuttosto che sullʼimplementazione di nuove leggi: questo quindi dà il via libera allo sfruttamento e, in un certo senso, anche alla distruzione di risorse biologiche e geologiche. E quello che è interessante è capire anche come dagli Anni ʼ70-ʼ80 nuove tecnologie di visualizzazione, come lo sviluppo delle tecniche sonar, hanno permesso nuovi tipi di cartografie e hanno dato inizio a discussioni geopolitiche su come dividere fra nazioni e istituzioni internazionali questi nuovi territori che prima non erano visibili e quindi non erano gestibili e sfruttabili.

Più che fotografo e filmmaker, ti ho sempre associato a un direttore d’orchestra. Al posto degli strumenti musicali la tua orchestra è formata da macchine fotografiche, telecamere, microfoni e altri mezzi di “registrazione”. Il tuo pentagramma è la natura. Che cosa c’è al posto delle note? 
Innanzitutto bisogna domandarsi cosa sia la natura, perché spesso ciò che consideriamo essere un paesaggio naturale è invece frutto di cambiamenti ormai millenari indotti dallʼuomo. È appunto interessante cercare di leggere nel paesaggio la storia e i sistemi economici che hanno portato a questi cambiamenti, anche per imparare, da cittadini, come vogliamo che venga pianificato il futuro del paesaggio che ci circonda. Comunque, se questi elementi del paesaggio (e in particolare in questo progetto parliamo del paesaggio sottomarino degli oceani) sono le note musicali, la partitura è cercare di capire quali sono le regole che come esseri umani, come società o come nazioni, ci siamo dati per orchestrare e sfruttare queste risorse. Il lavoro, forse, è proprio quello di negoziare con queste varie entità su come sia possibile rappresentare questi processi, per poi farne una narrazione artistica che viene portata in mostra.

Chi ha lavorato con te alla realizzazione di questa mostra?
La mia orchestra è formata da un gruppo di lavoro per me molto importante: per questa mostra è stata fondamentale la collaborazione con Giulia Bruno e Giuseppe Ielasi per i video, e con la curatrice Stefanie Hessler, la grafica Linda Van Deursen e lʼarchitetto Kuehn Malvezzi abbiamo cercato di creare un display che attivasse i luoghi stessi dellʼintuizione e di fare in modo che questi ex laboratori dellʼIstituto di Scienze Marine (CNR-ISMAR) risuonassero con i temi della mostra. Vi è infatti unʼinteressante risonanza tra i luoghi dove si vedono ancora le tracce dellʼattività scientifica e i temi trattati. Ed è stato rilevante anche l’aiuto di alcuni degli scienziati del CNR-ISMAR nello scegliere il materiale cartografico e i documenti scientifici dallʼarchivio dellʼIstituto di Scienze Marine che, come temi o metodo di rappresentazione, potessero di nuovo spiegare con una specie di zoom temporale lo sviluppo degli argomenti portati in mostra.

Ramu Nico Management MCC Limited, Basamuk Refinery, Madang Papua New Guinea © Armin Linke, 2016

Ramu Nico Management MCC Limited, Basamuk Refinery, Madang Papua New Guinea © Armin Linke, 2016

Sei stato ricercatore associato al MIT Visual Arts Program di Cambridge e professore associato allo IUAV di Venezia. L’ambito accademico e la ricerca hanno sempre avuto un forte peso sulla tua progettualità. In che misura?
Innanzitutto quello che mi ha insegnato il dover collaborare nellʼambito accademico è di cercare di mettere in prospettiva storica e teorica il proprio lavoro e ciò che si sta cercando di rappresentare. Si tratta poi di un tipo di lavoro collaborativo che mi ha aiutato a capire come funziona al suo interno lʼAccademia e come alle volte questa possa essere un prototipo per capire altre istituzioni. In particolare, al MIT ero stato invitato da Ute Meta Bauer a fotografare i laboratori ed è stato per me interessante cercare di capire come lavorano gli scienziati in diversi dipartimenti e di trovarne le differenze. Un’altra influenza importante è stata la lettura di libri come quelli di Bruno Latour, Pasteur: Guerre et paix des microbes, suivi de Irréductions, in cui l’autore per un anno osserva gli scienziati per vedere quali sono i loro metodi, e La fabrique du droit. Une ethnographie du Conseil d’État che presenta i vari lavori e le riunioni del Consiglio di Stato. È stato inoltre per me molto interessante per sviluppare questo metodo poter lavorare tre anni fa con Bruno Latour durante il suo corso di arte e scienze politiche SPEAP presso l’Università Sciences Po di Parigi.

Prospecting Ocean è un progetto che ha avuto tre anni di gestazione e sviluppo. Quali gli obiettivi che ti eri prefissato all’inizio, quali le variabili e le aggiunte nel corso del tempo e quale il risultato finale?
La mia proposta era quella di poter continuare il lavoro iniziato allʼHaus der Kulturen der Welt di Berlino con il progetto Anthropocene Observatory, dove per due anni abbiamo avuto la possibilità di sviluppare un’installazione che presentasse osservazioni di istituzioni, scienziati e attivisti legati al tema dellʼantropocene e, in particolare, attorno ai temi del cambiamento climatico, della geologia e dellʼatmosfera. Da questa esperienza artistica è nata così lʼidea e lʼesigenza di lavorare maggiormente sul tema degli oceani. All’inizio del progetto di questa mostra erano molti i temi che volevo trattare: la produzione di ossigeno, lʼacidificazione, le correnti e come modellare le condizioni del mare, specialmente i ghiacci. Andando avanti, poi, ho deciso di concentrarmi sul tema delle risorse, cercando di riconnetterle dal punto di vista della storia legale e dello sviluppo delle tecnologie dagli Anni ʼ70 a oggi in relazione allo sfruttamento delle risorse marine e biologiche. La collaborazione del CNR-ISMAR, inoltre, è stata molto importante non solo per la produzione dei contenuti, ma anche per la presentazione e per il display in mostra e la possibilità di utilizzare i loro spazi ha sicuramente dato un’ulteriore svolta al progetto.

Tre anni e tre spedizioni che ti hanno portato su e dentro l’Oceano Pacifico grazie al programma The Current, curato dalla TBA21-Academy, a bordo dell’imbarcazione Dardanella. Che cosa ti è rimasto dal punto di vista scientifico, immaginifico ed emozionale di quest’esperienza?
Quello che è interessante è che il materiale che adesso è in mostra non è stato ripreso durante i viaggi stessi sulla nave, perché il modo di operare quando si gira un film o quando si fotografa ha dei tempi e delle esigenze produttive specifiche. Però è stato importante, attraverso questi viaggi, poter visitare il Pacifico, conoscere gruppi di attivisti, poter visitare insieme a loro non solo i villaggi, ma anche luoghi che normalmente sarebbero completamente inaccessibili, e poter in un certo modo iniziare un dialogo ideale con un altro punto di vista diverso da quello delle istituzioni politico-scientifiche occidentali. È stato una specie di imprinting per conoscere altri tipi di narrativa, per tentare alla fine di incorporarli nel progetto. Per esempio, ho potuto prendere contatto con il gruppo di attivisti PENG e attraverso loro poi ho conosciuto un’altra organizzazione, il Bismarck Ramu Group in Papua Nuova Guinea, decisivo nella parte finale del film come tipo di narrativa diversa. E ancora molto importante è stato un incontro organizzato dalla TBA21-Accademy a Kingston, dove ci eravamo riuniti per presentare i risultati di uno di questi viaggi: qui ho avuto modo di visitare lʼInternational Seabed Authority, lʼOrganizzazione delle Nazioni Unite che gestisce i fondi marini nelle acque internazionali, e questo è stato il momento chiave dellʼinizio del progetto. Queste esperienze sono state dunque degli attivatori che mi hanno portato a studiare dei temi che poi ho avuto modo di sviluppare.

Norwegian University of Science and Technology NTNU, Dipartimento di Tecnologia Marina, Trondheim, Norvegia © Armin Linke, 2016

Norwegian University of Science and Technology NTNU, Dipartimento di Tecnologia Marina, Trondheim, Norvegia © Armin Linke, 2016

Quanto la tecnologia e una strumentazione avanzata hanno influito e contribuito alla realizzazione di questo progetto?
Uso sempre delle normalissime macchine fotografiche per le riprese video che sono in un certo senso accessibili a tutti e per questo progetto ho curato molto la parte tecnica e concettuale del suono collaborando con i musicisti Renato Rinaldi e Giuseppe Ielasi. È stato interessante aver avuto la possibilità di accesso allʼarchivio video di due importanti istituizioni di oceanografia tedesche, come GEOMAR e MARUM, dove con Giulia Bruno e Giuseppe Ielasi abbiamo potuto visionare svariate ore e giorni di riprese sottomarine fatte con veicoli a operazione remota (ROV) che vengono immersi in mare da una nave pilota e con un cordone ombelicale riescono ad arrivare fino a 5mila metri sotto il livello del mare, dove la pressione dellʼacqua è potentissima e il corpo umano non potrebbe assolutamente sopravvivere. In un certo senso questi robot diventano lʼestensione degli scienziati, dei geologi e dei biologi che sono sulla nave e le immagini che abbiamo utilizzato sono quelle “operative” che i piloti usano per navigare in modo remoto questi veicoli, per poter decidere come muovere il braccio, come stabilizzare il veicolo nelle correnti sottomarine e come investire il tempo e l’economia dei ROV.

E poi cosa avete fatto?
Quello che abbiamo fatto poi è stato montare unʼinstallazione a tre schermi con questi materiali, mentre su un quarto si possono leggere alcuni estratti dai report scientifici di ogni singola ripresa: si legge così tra le righe lʼagenda geopolitica sul perché quella specifica ricerca è stata organizzata e finanziata. Sono delle immagini, quindi, che nascono come tecniche e che noi trasformiamo in una situazione più coreografica, giocando con la qualità estetica e seduttiva quasi alla James Cameron.

Così com’è successo per la tua mostra multidisciplinare e multimediale al PAC di Milano, anche in questo caso ti sei avvalso della collaborazione di figure di rilievo in molti ambiti diversi: biologi, geologi, attivisti. È una metodologia, un format espositivo o un modo per “formalizzare” concetti di ampio respiro e transdisciplinari?
Direi che si tratta soprattutto di un modo per formalizzare o visualizzare concetti di ampio respiro: quello che m’interessa è cercare di capire come ogni entità e come ogni attore usi vari metodi di visualizzazione e di narrativa per la propria agenda e cercare di mettere insieme un puzzle per capire dove ci sono delle similitudini e dove ci sono invece delle dissimilitudini. Ed è questo un esercizio importante che dobbiamo fare per capire anche comʼè costruita la nostra società e come utilizziamo le immagini per trovare delle identità comuni.

Armin Linke. Prospecting Ocean. Installation view at Istituto di Scienze Marine, Venezia 2018. Photo Giulia Bruno 2018

Armin Linke. Prospecting Ocean. Installation view at Istituto di Scienze Marine, Venezia 2018. Photo Giulia Bruno 2018

Il progetto unisce fotografie, video, materiali d’archivio, persino riprese video di assemblee a porte chiuse delle Nazioni Unite. Qual è o quali sono i messaggi che vuoi trasmettere attraverso quest’opera?
Gli oceani sono una parte importante del nostro sistema abitativo e della nostra vita, anche se spesso li consideriamo molto distanti perché non riconosciamo le interconnessioni. La nostra concezione occidentale considera il centro della Terra la terra stessa, infatti la Terra si chiama Terra, anche se gli oceani e i mari coprono molto più spazio. Nonostante tutto questo ci sembri così distante, dobbiamo invece fare uno sforzo per capire come viene gestito: rischia infatti di partire una specie di nuova corsa allo sfruttamento di risorse naturali che potrebbe avere delle conseguenze non controllabili e che potrebbe portare alla distruzione di altre risorse biologiche di cui non conosciamo ancora il potenziale. Sarebbe dunque importante, da un lato, capire questa parte di storia geologica e naturale e dallʼaltro elevarla tra le nostre priorità. Non è solo una questione di ecologia, ma di come distribuire gli strumenti per poter prendere coscienza e per capire quali sono le forze in gioco, i rischi e i potenziali.

Prospecting Ocean è ospitato nell’ex sede centrale e nei vecchi laboratori dell’Istituto di Scienze Marine (CNR-ISMAR) che svolge ricerche anche in aree polari, oceaniche e mediterranee. L’istituto studia molti fenomeni come l’evoluzione degli oceani e dei margini continentali per definire l’attività di vulcani, faglie e frane sottomarine e gli scenari d’impatto sulle coste o l’influenza dei cambiamenti climatici sulla circolazione oceanica. Non uno spazio espositivo come tanti, dunque. Pensi che questa cornice, rilevante da un punto di vista di ricerca, rafforzi la valenza scientifica del progetto?
Il contesto rafforza la valenza narrativa del progetto: come già detto prima, le testimonianze degli scienziati sono state molto utili per irrobustire il progetto espositivo. Poter presentare l’installazione in uno spazio come quello del CNR-ISMAR aggiunge un ulteriore livello di lettura al contesto, perché ci troviamo al centro della laguna di Venezia, non solo uno dei primi habitat marini artificiali creati dall’uomo, ma anche uno dei centri storici dal punto di vista logistico e geopolitico dello smistamento di risorse.

Daniele Perra

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Daniele Perra

Daniele Perra

Daniele Perra è giornalista, critico, curatore e consulente strategico per la comunicazione. Collabora con "ICON DESIGN", “GQ Italia”, “ULISSE, "SOLAR" ed è docente allo IED di Milano. È stato fondatore e condirettore di “unFLOP paper” e collaboratore di numerose testate…

Scopri di più