Vittorie e sparizioni. Intervista a Loredana Longo
Parola all’artista attualmente in mostra negli ambienti di Surplace, a Varese. Con una riflessione attorno al delicato tema della “vittoria”. Ecco il dialogo con il curatore che ha lavorato con lei nelle ultime settimane.
Fino al 21 giugno da Surplace a Varese Loredana Longo (Catania, 1967) propone una grande installazione dedicata a Victory, una parola che rientra nella grammatica della sua ricerca da un paio d’anni.
L’artista padroneggia il valore della comunicazione verbo-concreta, intendendo comprendere il peso specifico delle parole, oltre che delle immagini. A questa grande orbita, densa di diramazioni complesse e precise specificità, che vede la parola al centro dell’operazione artistica, appartiene anche il suo ciclo di opere Victory, che in questa mostra da Surplace assume ulteriori conformazioni, poiché Loredana Longo ha concepito un intervento site specific. Victory caratterizza l’operatività recente dell’artista come un capitolo maturo del suo lavoro concentrato verso la sintesi di ciò che contraddistingue la sua ricerca, ovvero un’indagine sulle differenti declinazioni culturali, politiche e sociali della realtà. Ne abbiamo parlato con lei.
Come nasce Victory?
Da una sensazione, e dal volerla tradurre in qualcosa. Era il 2016, le notizie degli attacchi dei miliziani jihadisti, le immagini di Palmira devastata, mi hanno suggerito questa sensazione di vittoria e sconfitta nello stesso tempo. La sconfitta di una civiltà, o della civiltà e il trionfo di un’umanità irriconoscente alla vita e alla cultura. Vedere degli uomini che alzavano le braccia in aria, in senso di vittoria accanto alla devastazione di antiche rovine, mi ha fatto prendere consapevolezza di una cosa, non esiste vittoria. Perciò ho sempre associato questa parola a immagini di cronaca che per me rappresentano momenti di insuccessi del genere umano e, per sottolineare la provocazione insita nel significato di vittoria, li ho disegnati con un saldatore elettrico bruciando la superfice di velluto, quasi togliendo e sostituendo con polvere di combustione, cenere.
La versione proposta a Varese nello spazio di Surplace, che conosco perché sono il curatore di questo tuo progetto, è inedita. Ti va di raccontare com’è stata concepita e perché?
Sempre nel 2016 ho realizzato delle sculture in marmo sulle quali ho applicato lo stesso tipo di violenza cieca e ingiustificata esercitata da un atto vandalico. Successivamente ho recuperato le parti e le ho rincollate, dando una nuova vita all’oggetto, come un atto di restauro, una volontà di recupero del significato di vittoria che tuttavia portasse sempre le cicatrici di quella perduta unità e forma originaria. Da Surplace ho presentato la scritta Victory invertendo le lettere, giocando sempre in modo provocatorio, e costruendola con centinaia di colli di bottiglia spezzati e accostati tra loro, per terra migliaia di schegge di vetro, un pericoloso tappeto di rovine. È interessante che anche solo con una parola si possano realizzare tanti progetti, e che siano indipendenti gli uni dagli altri, ma il mio esercizio è legato ad altro, al mio gesto, che si carica di quella valenza distruttrice ma al contempo ricreatrice. Solo l’artista può fare questo.
Nel tuo lavoro rifletti spesso su alcuni paradigmi del presente legati a comportamenti sociali ed emergenze culturali e antropologiche. Come può l’arte contemporanea incidere del presente, ammesso che ciò si possa ancora praticare, visto che a mio parere la realtà è andata ben oltre ogni possibile immaginazione?
Riflettevo sul fatto che il mio lavoro è debole da un punto di vista sociale ma intensamente politico, sento l’esigenza di restituire il mio pensiero che incontra e si scontra con delle urgenze legate alle vicende politiche attuali, ma so benissimo che posso solo dare la mia personale lettura, un contributo che non vuole essere indicazione per nessuno, ma mette l’accento su un pensiero che diventa necessità individuale. In realtà non riuscirei a fare altro, il mio essere visionario è legato alla mia attualità, trasformo immagini del reale in un mio mondo parallelo, in cui io sono quasi una figura dalle possibilità extraumane, ma non esercito magie, bensì solo azioni di forza, che cancellano la stessa azione devastatrice restituendo una materia nuova. La materia di cui siam fatti noi, quella che subisce la vita e porta i segni dei passaggi quotidiani.
A cosa stai lavorando in questo periodo?
Ho appena inaugurato un lavoro nuovo presentato a Palermo negli spazi della mia galleria Francesco Pantaleone, durante i giorni di svolgimento di Manifesta, quindi sarà visibile fino ai primi di novembre. Il tempo in questo lavoro è fondamentale, perché significa crescita. Ho costruito con un architetto del paesaggio, Alfio Sciacca, una parete di vegetazione nella quale è visibile la scritta FAKE. Durante i mesi, la crescita di una specie sull’altra provocherà la perdita dei confini spaziali delle lettere e quindi della parola FAKE, che significa “falso”. In questo caso la vegetazione realizzerà la trasformazione e la distruzione del significato originario.
Progetti futuri?
Prossimamente, sempre a Palermo, lavorerò a un progetto molto complesso che durerà diversi mesi, in collaborazione con un gruppo di curatori, psichiatri, assistenti sociali, guardie carcerarie e detenuti. Il luogo sarà il noto Ucciardone, istituto penitenziario. Non posso dire nulla finché non inizieremo il lavoro, solo che vorrei superare i limiti della parola Libertà, a me molto cara. Sullo stesso tema, ma in altra declinazione, sto lavorando a un progetto di un circo, più vicino a un circo romano però, in cui si disputavano lotte fra esseri umani o animali, una sorta di uno contro l’altro e in cui le armi che sono in possesso di qualcuno rappresentano oggetto di offesa e difesa. Sto ideando tutto un apparato pseudobellico che ricostruisce un futuribile legato a un passato, come nostalgico rispetto alle contemporanee armi di distruzione. Certe volte penso a come immaginavamo il futuro e le sue estensioni, ovviamente tutto è stato ampliamente superato e quelle figure immaginate sembrano solo retaggi di vecchi film di fantascienza, ma io sono legata a quell’immaginario, a una visione postbellica in cui se vuoi sopravvivere devi ricostruire tutto da quello che resta del passato. Quella è la mia visione.
Tempo fa mi hai accennato a un progetto in Africa. Di cosa si tratta, vuoi parlarne?
Forse è il progetto che mi sta più a cuore, quello nato grazie all’invito della giornalista Zineb El Rhazoui e della fotografa Olivia Froudkine. Lo scorso aprile abbiamo visitato i luoghi del più sanguinario dei genocidi avvenuti in tempi recenti, il Rwanda, e il prossimo aprile, durante i giorni del 25esimo anniversario dalla fine del genocidio contro i Tutsi, realizzeremo questo progetto molto articolato, possibile solo grazie al supporto di varie associazioni come EGAM – European Grassroots Antiracist Movement, che inizierà a Kigali, capitale del Rwanda, e continuerà in Libano, Armenia e Francia.
Cosa farai?
Chi può dirlo? Durante i giorni della mia permanenza, attraversando il Paese, ho notato che il suolo è costituito da una terra di un colore rosso molto intenso, quasi fosse irrorata del sangue delle migliaia di vittime massacrate nelle campagne. Una sera, in terrazza, dopo una estenuante giornata di escursioni, mentre discutevamo del lavoro, ho spiegato che vorrei realizzare qualcosa che contenga l’oggetto principale di distruzione utilizzato in questo genocidio, il machete, ma non vorrei fosse fisicamente presente. Credo che attraverso degli stencil realizzerò una lunga passeggiata di machete disegnati sulla strada che porta al memoriale. Vorrei che la gente ci camminasse sopra cancellandone la forma, una sorta di dissoluzione del simbolo del genocidio. Anche in questo caso, come è spesso nel mio lavoro, l’opera scompare. Il processo di distruzione è così portato all’eccesso, infatti considero la sparizione dell’opera il tratto più interessante del mio lavoro.
‒ Lorenzo Madaro
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati