Maschere e animismo. Intervista a Michael Fliri
Parola all’artista altoatesino autore di una profonda riflessione sul tema dell’animismo.
In mostra negli spazi della Galleria Raffaella Cortese a Milano, Michael Fliri (Tubre, 1978) approfondisce la sua poetica. Spaziando dall’uomo alla natura, dal pieno al vuoto, nel solco di un animismo mai sopito.
Iniziamo parlando della personale attualmente in corso alla Galleria Raffaella Cortese di Milano dal titolo AniManiMism. Come è nata e come si inserisce nel tuo percorso? C’è una forte coerenza rispetto alla tua pratica e alla tua poetica ‒ si ritrovano, per esempio, il tema della maschera, della trasformazione, dell’identità ‒, ma al contempo si percepisce uno sviluppo, un andare oltre…
La mia ricerca è iniziata con la performance e il video. Ora c’è una evoluzione verso la scultura, verso le maschere, la fotografia e la videoinstallazione. Quelli che realizzo sono sempre dei viaggi. All’inizio erano viaggi verso il mondo, verso l’esterno. Adesso il viaggio è verso l’interno, verso l’inconscio. C’è differenza tra scultura e maschera. La scultura è qualcosa di statico. La maschera è dinamica, performativa: la prendo, la indosso e do vita a un nuovo mondo, a un nuovo sguardo sul mondo. La tematica della maschera è diventata molto importante per me. Certo, è sempre presente una ricerca sulla identità, anche per via delle mie origini altoatesine. Per diversi anni, per esempio, ho studiato sei mesi a Bologna e sei mesi a Monaco. Ho una sorta di “ambiguità coltivata”, in una accezione positiva.
Che cosa intendi?
Spesso il termine “ambiguità” ha una sfumatura negativa. Mi sono invece reso conto che coltivo positivamente tale ambiguità. Sono quasi “diviso” tra dualità: Nord e Sud, calore e freddo, retro e fronte di una maschera… E lo stare nel mezzo mi fa bene! Le sculture che presento in galleria sono nate nel 2014 durante una residenza in Germania a Fiedrichshafen e le ho esposte per la prima volta nella mostra Where do I end and the world begins. Il Maskenmuseum di Diedorf ‒ che ha una collezione di 8mila maschere ‒ ha messo a mia disposizione una quarantina di maschere permettendomi di lavorare direttamente sugli originali (anche altri musei mi avrebbero concesso il prestito, ma per ragioni conservative avrei potuto lavorare solo su ricostruzioni a partire dalla loro scansione). Questa è stata una grande opportunità perché io vado alla ricerca dell’animismo delle maschere, volevo proprio tirarne fuori il materiale. Era come se ne tirassi fuori anche il sudore, se pensi che queste maschere in passato sono state davvero utilizzate. E il retro è diventato il positivo, e poi si crea questo spazio nel mezzo…
Ci sono due facce che diventano una, vanno a stratificarsi, tu lavori per confonderle. C’è una ambiguità, appunto.
Questo è un tema. E catturo lo spazio tra il retro della maschera e il volto di chi la indossa.
È come dare una forma al vuoto.
Sì. E qui si concretizza in maniera molto fisica. Definisco il piccolo spazio che viene a crearsi “uno spazio d’azione”, è lo spazio che ci è dato a questo mondo, è l’insieme delle nostre possibilità.
È un margine di possibilità.
Esatto, lo vedo proprio così.
Ed è sia fisico che metaforico.
E inoltre nella maschera c’è anche il mio viso. Non ho però indossato direttamente tutte queste maschere che provengono da Giappone, America del Nord, Africa… Una maschera indossa un’altra maschera.
Si sviluppa così un ulteriore livello di sovrapposizioni e mascheramento. Lo leggo per certi versi come un prosieguo di uno dei primi lavori, Come out and play with me del 2004: tu che da pecora diventi un maiale. C’è sempre un doppio, una trasformazione, un passaggio. Qui le due identità convivono, lì la distinzione era netta.
Lì era esterno vs interno, qui fronte vs retro. Nel realizzare queste sculture con le maschere mi sembra di aver lavorato come un archeologo, raccogliendo le tracce.
L’idea di fare un calco si collega anche al procedimento di realizzazione delle maschere mortuarie. Mi viene in mente, per esempio, quella di André Breton esposta alla Biennale di Venezia del 2013 ne Il Palazzo Enciclopedico. Un dialogo tra pieno e vuoto nel tentativo di “congelare” la vita. Ci si ricollega allo spazio che si viene a creare tra il tuo volto e la maschera in My private fog II del 2017, dove è il soffio vitale, il tuo respiro, che trasforma l’opera.
Qui lo spazio è organico, vivente, cambia. Come dicevo prima, sono interessato alle dualità. I sassi, i cristalli che raccolgo in alta montagna nell’opera si trasformano da piccole rocce a montagne intere. Dal calore del mio corpo si riesce quasi a creare un blocco di ghiaccio, una montagna invernale.
E qui c’è un’altra dicotomia, lo scambio e dialogo tra organico e inorganico, artificiale e naturale. Anche qui poi è centrale la trasformazione, quasi alchemica. Lavori con gli elementi, aria, terra…
Fondamentale per me è l’idea di dare un volto alle cose. Questo si collega all’animismo o anche ai virtuosismi di antropomorfizzazione del Manierismo. Pensa alle opere di Arcimboldi.
O alla Metamorfosi di Narciso di Salvador Dalí.
Forse, semplicemente, vogliamo che le cose che ci circondano abbiano un po’ di vita, abbiano qualcosa di noi.
Questa è esattamente una visione animista, è l’antropologia dell’oggetto: gli oggetti hanno un’anima, quando li usiamo catturano un po’ della nostra storia, qualcosa di noi. E questo accade con la maschera. Se poi pensi al fatto che in latino il termine “persona” indicava la maschera…
Nella videoinstallazione a quattro canali AniManiMism le maschere provano a comunicare. Non c’è un livello fittizio, vedi oltre il manichino, vedi come la maschera viene animata.
Viene svelato il trucco, insomma.
Però dopo un po’ accetti comunque che la maschera sia animata così.
Ed entri nella fiction.
E vedi oltre.
C’è una forte componente teatrale e performativa in tutte le tue opere, rafforzata dal fatto che tu ti esponi in prima persona, c’è il dato autobiografico, ti metti in gioco. Quando hai maturato l’idea che tu dovessi essere fisicamente presente nel tuo lavoro?
Fin dal mio primo lavoro, Der Schneemann del 2001, quello con il pupazzo di neve, io come artista volevo diventare il materiale che stavo usando. Volevo usare la neve, ma poi ho impiegato il polistirolo.
Si ritorna a naturale e artificiale.
Sì. Sono diventato io stesso il pupazzo di neve, il mio corpo era il materiale che avevo a disposizione. Sono inoltre sempre curioso di capire come il mio corpo possa reagire in determinate situazioni. Non mi interessa però che il risultato finale sia perfetto.
È un misurarsi con se stessi, vedere dove si arriva, è una prova.
Così come la nostra vita è una prova. È una cosa naturale.
Ricorre l’immaginario zoomorfo: tu che diventi scimmia, pecora, maiale. Diventi qualcosa che è totalmente altro da te, ti metti in gioco anche in questo.
Nell’ultimo periodo in realtà gli animali non sono tornati, sembra quasi che questa mia attenzione a cogliere l’animismo dall’uomo sia passata all’animale per arrivare a cose inanimate, come le rocce, i cristalli.
E in Gloves del 2017 “animi” dei guanti. Lavori ancora una volta sul pieno e sul vuoto, sulla presenza di una assenza. Queste sculture sembrano quasi a loro volta delle maschere ed evocano il gioco di creare delle forme con le mani.
Dentro ai guanti ci sono le mie dita che creano tutte queste diverse forme, unendosi tra loro. Interpreto i guanti come dei “costumi” per le mani. Permettono alle mani di infilarsi in essi, ma al contempo ne limitano le posizioni. Richiamano la maschera, ma anche il momento in cui ci si scherma con le mani per proteggersi il volto. Per il titolo della mostra ho creato un gioco di parole che tenesse conto di tutto questo.
Mani che fungono da trait d’union fra le maschere di Where do I end and the world begins, My private Fog II e il video AniManiMism.
Sì, dallo spazio in via Stradella 1 portano idealmente al video esposto nello spazio di via Stradella 4.
Questo è stato un anno molto positivo per te (mostre personali e collettive in Belgio, a Massa, a Prato) e anche l’anno prossimo sarà fitto di appuntamenti.
Si è appena conclusa la Triennale di Ostenda, in Belgio, curata da Jan Fabre e Joanna De Vos intitolata The Raft. Art is (not) Lonely. I curatori mi hanno chiesto di portare il video Early One Morning with Time to Waste del 2007, con la barca realizzata con bottiglie di plastica, ed è interessante vedere come un lavoro di undici anni fa venga oggi percepito in maniera diversa. Ha una sua poetica intrinseca che lo sottopone a nuove possibilità di lettura, lo fa guardare con occhi diversi. La capacità di questo lavoro di risultare ancora attuale è stata per me una sorpresa davvero positiva. Nel 2017 si è inoltre svolta la più grande personale che abbia mai fatto in Belgio Replace me as the Substitute, al Cultuurcentrum Mechelen, da cui provengono alcuni dei lavori esposti in galleria. Ora sto lavorando intensamente su nuove produzioni, con fotografia, scultura e video, meno con la performance ultimamente.
Effettivamente, già agli inizi concepivi le performance per una fruizione mediata, dalla fotografia o dal video.
Prima viene l’idea, la poetica. Il medium viene successivamente. Scelgo sempre quello più congeniale. Ora sto lavorando su tre idee, che stanno prendendo forme diverse, in parallelo, attraverso media diversi. Non c’è una gerarchia. A settembre esporrò a Fortezza in Alto Adige (è stata una delle sedi di Manifesta 7), uno spazio enorme, molto difficile, ma sarà una mostra molto ricca. Presenterò parte di questi lavori e anche nuove produzioni. Mi piace l’idea di creare un mondo avvolgente. E nel 2019 sono previste mostre al Magazin 4 di Bregenz e al Museum Kitzbühel.
Quindi dalla performance, dall’uomo, passi all’animale, poi all’organico per arrivare all’inorganico e poi torni a te stesso, al guardarsi dentro, in maniera intima, proprio grazie alla maschera che, paradossalmente, nel celare il volto fa concentrare maggiormente su se stessi. I tuoi nuovi lavori in che direzione stanno andando?
Finché non sono terminate, le opere non hanno ancora una loro vita. Lo scoprirò anch’io. Sento che le cose che sto creando si staccheranno da me, io sarò meno presente. Le cose che ora animo diventeranno autonome.
‒ Damiano Gullì
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